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Recovery Plan

Perché il governo pensa che Draghi non lascerà la Bce senza dare una mano all’Italia

L'articolo di Cristoforo Lascio

Per settimane i più pensosi editorialisti e analisti italiani, gli stessi che in larga parte hanno osservato l’accumularsi di 2.500 miliardi di debito pubblico senza fiatare, hanno invocato la «responsabilità» sui conti pubblici e il rispetto delle regole europee da parte del Governo Cinque stelle-Lega.
Adesso che l’esecutivo apre a una riduzione del deficit e a una convergenza sulle richieste comunitarie, gli stessi pensosi analisti di cui sopra si sono trasformati in ortodossi pasdaran del Contratto di governo e si son messi a strepitare per il «tradimento» delle promesse fatte agli elettori.

Atteggiamento curioso quello dei commentatori, un filo irrazionale, ma è così che si procede da mesi nel commento della politica economica dell’esecutivo. Fuor di polemica, invece, è possibile tracciare una ratio dietro il fisiologico tentativo dell’esecutivo di ricalibrare la propria strategia di fronte a una realtà che cambia. Tenendo a mente che il Governo giallo-verde non è solamente «a due punte», come spesso si ripete alludendo ai due uomini forti Matteo Salvini (Lega) e Luigi Di Maio (M5S), ma «a tre punte» se teniamo conto della componente tecnico-economica che pure è presente (Paolo Savona e Giovanni Tria).

Questa terza punta, o meglio: le idee che da questa terza punta provengono, è la carta che l’esecutivo ha iniziato a giocarsi con più convinzione nelle ultime ore nella trattativa con la Commissione europea che accusa Roma di eccessivo indebitamento. Lo si evince dalla sorte delle misure più in vista nella manovra. Il cosiddetto «reddito di cittadinanza», la misura più invisa al Nord e all’elettorato della Lega, che doveva costare 17 miliardi secondo il progetto originario, è stato ridimensionato a 9 miliardi nello stanziamento nella prima versione in manovra, ora potrebbe essere ulteriormente alleggerito spostandolo in avanti nel tempo e rimodulandolo un po’ a favore d’impresa grazie alla futura legge di attuazione.

Il superamento della legge Fornero sulle pensioni, la misura più invisa alla Commissione europea perché segnala la volontà di disfare le riforme strutturali, sarà anch’esso reso più graduale: la finestra temporale per goderne sarà spostata pure lei in avanti di qualche mese, mentre la platea di beneficiari sarà un po’ ridotta (per esempio estendendo il divieto di cumulo tra pensione e lavoro fino a cinque anni).

Ma se le «due punte» Salvini-Di Maio arretrano per un attimo, vuol dire che tutto il governo sta correndo disperatamente nella propria metà campo di gioco per mettersi in difesa e predisporre un catenaccio anti Commissione Ue? Il tempo giudicherà, inutile impelagarsi ora nella disquisizione «ha vinto Roma» oppure «ha vinto Bruxelles». Nell’esecutivo, intanto, fonti qualificate giurano che il tentativo è un altro.

Non quello di un bluff di facciata, ma quello di far avanzare la «terza punta» del governo, con una manovra che comunque «deve rimanere moderatamente espansiva e con una vocazione alla giustizia sociale», e che contemporaneamente persegua due obiettivi: dilatare la durata della trattativa sulla procedura di infrazione di Bruxelles per avere tempo e modo di spingere sugli investimenti e rilanciare la crescita.

Arretrare un po’ per attaccare con più efficacia, se vogliamo attenerci alla metafora calcistica. Indizi di questo approccio sono visibili nel comunicato di Palazzo Chigi successivo al vertice Conte-Di Maio-Salvini di lunedì sera, dove al netto delle dichiarazioni di principio, l’accenno «operativo» è il seguente: «Le somme recuperate saranno riallocate, privilegiando la spesa per investimenti, con particolare riferimento a quelle necessarie a mettere in sicurezza il territorio e a contrastare il dissesto idrogeologico».

«Investimenti» è la parola chiave più utilizzata in queste ore, sia nello spin governativo sia nei resoconti della stampa, e agli osservatori delle banche d’affari, impegnati a stilare report esplicativi per i loro clienti, torna alla mente lo script della prima intervista che il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, ha concesso a un giornale italiano, La Verità, lo scorso luglio: in quell’occasione Savona non nominò mai il reddito di cittadinanza o la riforma delle pensioni, mentre citò per tre volte la necessità di un «piano di investimenti».

Un piano di investimenti che non si disperda tra mille rivoli decisionali e di spesa, perché per ora c’è la cabina di regia di Palazzo Chigi ma ci sono anche i piani del Ministero dei Trasporti e del Ministero dell’Economia, è l’unica possibilità concreta sul fronte domestico per non sprecare il tempo che Conte sembra aver conquistato rinviando di qualche mese l’arrivo della procedura d’infrazione nel Consiglio Ue.

Sul fronte del dibattito europeo, invece, utilizzare in maniera operosa e produttiva questi mesi di tempo sarà molto più complicato. Per rispondere alle proposte franco-tedesche tipo quella del bilancio comune, ci sono le munizioni del documento Savona da cui partire, magari in accordo con la prossima presidenza di turno del Consiglio Ue in capo alla Romania.

Per ora tuttavia a Roma domina la consapevolezza che il 2019 sarà un anno di transizione politica e tecnocratica a Bruxelles: tra campagna elettorale per il Parlamento europeo, elezioni, scelta e insediamento della nuova Commissione, è utopistico presagire chissà quali passi in avanti (o indietro) nella riforma dell’Unione monetaria.

Infine gli economisti della compagine governativa scrutano con attenzione i fattori di contesto che non dipendono dal governo. La narrazione dell’Italia «pecora nera» d’Europa regge sempre meno, ragionano nel governo, se perfino due economisti tutt’altro che filogovernativi come Alesina e Giavazzi, sul Corriere della Sera, osservano che «sia gli Stati Uniti che l’Europa stanno rallentando, un punto in meno di crescita fra il 2017 e il 2019-20 in entrambe le aree, secondo le previsioni più recenti dell’Ocse».

Il rallentamento delle economie europee è diffuso e comuni sono i problemi dell’architettura della moneta unica. Davvero la Banca centrale europea, a partire dal prossimo 13 dicembre, potrà avviare quella che di fatto è una stretta monetaria, parallela alla stretta fiscale che Bruxelles continua a richiedere agli Stati? Certezze non ce ne sono. Ma al Governo c’è chi scommette, o forse spera, che Mario Draghi, il governatore che ha salvato l’euro nel 2012, non voglia concludere il suo mandato a Francoforte con una mossa controtempo che lo farebbe passare alla storia come un nuovo Trichet, il governatore della Bce che improvvidamente alzò i tassi nell’estate 2011, quando una ripresa economica sostenibile non era ancora all’orizzonte, con tutti i problemi che ne sono seguiti.

 

Articolo pubblicato su ItaliaOggi

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