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Perché il governo non deve sottovalutare i segnali di tensione sui mercati

Il commento di Gianfranco Polillo sui segnali di allarme rosso per l'Italia sui mercati

Segnali di allarme rosso che non vanno sottovalutati. Dal primo agosto gli spread sui Btp italiani a 10 anni sono in tensione. Con un aumento di oltre 30 punti base, che hanno portato il loro livello a quota 255. Valori che non si vedevano dalla fine di giugno. Un’ascesa che continuerà? L’asticella salirà fino a 400 punti base, nel mese di settembre, come pure è stato ipotizzato? Difficile rispondere. In agosto i mercati diventano più sottili. E basta un niente per determinare possibili scossoni.

Lo abbiamo visto in questi giorni alla borsa di Milano. Con le trimestrali delle banche che vanno piuttosto bene e la mancanza di riscontro sugli andamenti dei titoli. Ha sorpreso il tonfo di Unicredit o Intesa Sanpaolo, che non ha giustificazioni alcuna. Visto che il price/earning – l’indicatore che misura l’eventuale sottovalutazione o sopravvalutazione del titolo – si colloca ai minimi dell’anno. A questi prezzi, quasi di realizzo, era, quindi, logico aspettarsi un flusso di denaro alla caccia del buono affare. Si è invece verificato l’esatto contrario.

Che fine ha fatto, allora, la presunta o reale razionalità dei mercati? Un corto circuito? Oppure il contagio di un sentiment che guarda alle condizioni più generali della politica italiana. E scarica le tensioni sui titoli più esposti. Come quelle delle principali banche italiane che, in pancia, hanno tanti, forse troppi, titoli del debito sovrano. Che la crescita degli spread deprezza nei loro valori capitali, alimentando le perdite future.

Diversi i fattori che hanno contribuito a deteriorare il clima. Le nuove previsioni a ribasso sulla crescita del Pil, con i loro riflessi negativi sugli equilibri di finanza pubblica. Quindi le attese per la politica della Bce. La fine del quantitative easing, nonostante gli impegni di Mario Draghi, che tuttavia è in scadenza, crea un stato profondo di incertezza. A ciò si aggiunga l’esito non positivo dell’asta recente sui titoli di Stato. Sebbene quest’ultima fosse di seconda istanza, una parte dei titoli non ha incontrato la necessaria domanda: risultando invenduta. Insomma le ragioni per non essere tranquilli ci sono tutte.

A ciò si aggiungano le incertezze della politica economica. Le scelte del governo, almeno, fino ad oggi sono risultate contraddittorie. Con il cosiddetto decreto Dignità, checché se ne dica, le condizioni del mercato del lavoro sono divenute più rigide. La presenza di quel forte “esercito di riserva”, rappresentato dall’elevato numero di disoccupati, non ha determinato le scelte coerenti e necessarie. Che andavano, semmai, in una direzione opposta. Nel senso di favorire il loro progressivo assorbimento. Per poi pensare alla loro successiva stabilizzazione.

Al tempo stesso, i grandi interventi – l’Ilva, la Torino-Lione, il gasdotto Tap – sono oggetto di un oscuro desiderio di profonda revisione se non di un vero e proprio annullamento. I contratti in essere sono variamente contestati. Si cerca il pelo nell’uovo – l’intervento dell’ANAC – nella speranza di trovare adeguati cavilli per ricominciare da capo. Dimenticando che non è questa la regola di base che vige sui mercati internazionali. Dove gli accordi, una volta conclusi, vanno rispettati. Pena l’inevitabile discredito, che porta alla sindrome dell’ostracismo. Non più affari con chi non si è dimostrato affidabile.

C’è quindi abbastanza per giustificare quanto sta avvenendo sul terreno più sensibile dei rapporti finanziari. La verità è che l’Italia si trova di fronte ad un bivio. Non può seguire le politiche del passato, che l’hanno cacciata nel baratro della deflazione. Ma non può nemmeno prescindere dai condizionamenti internazionali che ne frenano le scelte. In passato mancava la forza per reagire, anche quando sarebbe stato necessario farlo. Oggi quella volontà è più manifesta. Ma non può limitarsi all’invettiva o al “faccio quello che mi pare”. La forza va coniugata con la ragione. Con la capacità di convincere gli altri – gli investitori, la comunità internazionale e via dicendo – che si è in grado di maneggiare con cura i destini del Paese, senza cadere nell’eterogenesi dei fini. Cosa che ancora, purtroppo, non si è vista.

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