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Perché gli Eurobond non sono la salvezza per l’Italia

Gli Eurobond sono davvero la soluzione adatta e conveniente per l’Italia? No, ecco perché. L'analisi di Giuseppe Liturri

Gli Eurobond sono davvero la soluzione adatta e conveniente per l’Italia?

No. E la voce dal sen fuggita che ci suggerisce questa conclusione è quella dell’insospettabile Lorenzo Bini Smaghi (intervista al quotidiano La Stampa del 17 aprile) secondo cui “Il concetto è che Babbo Natale non esiste. E sorprende che i nostri politici non ne siano al corrente o se ne siano resi conto da poco. I fondi emessi a livello europeo, con garanzie europee, finanziano iniziative europee, cioè decise in comune a livello europeo. Non servono per finanziare il bilancio pubblico italiano. Gli eurobond servono ad esempio per un piano di investimenti comuni per sostenere la ripresa dell’ economia europea dopo la crisi».

Gli eurobond sono strumenti di debito emessi da una entità sovranazionale (Commissione UE, ad esempio) e quindi garantiti dalla firma o dal capitale di tutti gli Stati UE, il che consente di spuntare tassi molto bassi presso gli investitori. Quei fondi sono poi utilizzati per finanziare o concedere contributi a fondo perduto a Stati ed imprese della UE.

Accade già, grazie a:

  1. MES. Istituito nel 2012 per erogare prestiti a Paesi che hanno perso o rischiano di perdere l’accesso ai mercati, e perciò presta sotto rigorose condizioni. Si finanzia emettendo bond. E ora in molti vorrebbero farci credere che possa funzionare anche per la crisi da COVID 19. Come credere che un bolide di Formula 1 possa correre sullo sterrato. Tali e tante sarebbero le modifiche necessarie che sarebbe meglio costruirne uno ex novo.
  2. BEI. Concede prestiti alle imprese della UE in determinati settori ed è la banca della UE, con tutta la prudenza e le condizioni necessarie. Si finanzia come il MES. Con la crisi da COVID 19, la si dota di un fondo di garanzia di €25 miliardi che dovrebbe generare fino a 200 miliardi di finanziamenti.
  3. SURE. Concederà prestiti agli Stati UE, fino a €100 miliardi, per affrontare le maggiori spese per la cassa integrazione. Emetterà bond sui mercati facendo leva su un fondo di garanzia di €25 miliardi, a cui contribuiremo pro-quota.
  4. BCE. È di fatto una forma di mutualizzazione del debito. Non emette titoli ma “stampa” moneta con cui li compra. Con il programma partito nel 2015 è arrivata a detenere circa 2.200 miliardi di titoli pubblici (di cui 400 italiani, tramite Bankitalia). Tali titoli vengono, per il momento, rinnovati a scadenza e gli interessi ritornano al Tesoro tramite i dividendi di Bankitalia. E’ la forma per noi più conveniente, perché priva di condizioni e ci lascia relativamente liberi di decidere cosa fare quando ci indebitiamo; ma più pericolosa, perché BCE ha comunque dei limiti imposti dal divieto di finanziamento monetario del deficit, si muove discrezionalmente negli acquisti e potrebbe pure cessarli.
  5. Bilancio UE. Si tratta di circa 1.200 miliardi in un settennio che vengono concessi a fondo perduto agli Stati e vengono finanziati dai contributi degli Stati stessi. In questo piccolo fondo di solidarietà l’Italia è contributore netto (36,3 miliardi nel periodo 2012-2018).

Un recente rapporto di un organo del’Europarlamento propone che gli eurobond siano emessi dalla Commissione UE per mezzo di un veicolo dedicato (ERF), qualcosa a cavallo tra SURE potenziato e bilancio UE con uso del debito e non solo di risorse proprie.

La Commissione UE si finanzierebbe emettendo eurobond sui mercati per 1.200 miliardi e utilizzerebbe tali somme sia per prestiti che per contributi a fondo perduto a favore degli Stati membri. E la differenza non è banale. Se erogasse prestiti, l’ERF sarebbe come una banca che si finanzia da sé. Se invece concedesse contributi, l’ERF dovrà necessariamente avere entrate proprie, sia per pagare gli interessi che per rimborsare i bond. L’idea è quella che ciascuno Stato contribuisca con l’1/2% delle imposte societarie, raccogliendo così un flusso annuo di circa €20 miliardi (di cui circa 2 dall’Italia). In entrambi i casi gli Stati dovrebbero sottostare a condizioni.

Ma chi decide cosa fare con questi contributi? Se volessimo, per esempio finanziare il taglio del cuneo fiscale per 50 miliardi l’anno e la UE non fosse d’accordo? I vincoli e le condizioni, peraltro legittimi, sarebbero enormi.

Si ripeterebbe, in larga scala, ciò che accade già oggi col MES o col bilancio UE: le linee guida le fissano a Bruxelles e noi dobbiamo pure rispettarle per spendere soldi che alla fine sono nostri.

Al nostro Paese conviene soltanto che la BCE faccia il suo lavoro e lo faccia senza limiti. Le priorità secondo cui ricostruire l’Italia le decideremo noi.

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