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Giorgetti

Draghi se ne fregherà di uno sciopero sulle pensioni, ecco perché

Uno sciopero non si nega a nessuno. Figurarsi se potrà essere Draghi a negarlo o ad evitarlo... I Graffi di Damato

 

La storia politica e sindacale dell’Italia consente di scrivere che lo sciopero, come il sigaro o un’onorificenza delle tante di cui dispone il capo dello Stato, non si nega a nessuno. Può darsi, quindi, che la rottura consumatasi ieri a Palazzo Chigi con i sindacati sul tema pensionistico della discordia e qualcosa d’altro, sfoci davvero nel minacciato sciopero generale.

Ma Draghi – diversamente da qualche suo predecessore tutto politico come Mariano Rumor, che una cinquantina d’anni fa profittò di uno sciopero generale per dimettersi e tentare di ottenere dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat uno scioglimento anticipato delle Camere negatogli invece con forza – non si lascerà né intimidire né farsi prendere dalla tentazione di una rinuncia clamorosa, magari funzionale a chissà quale progetto politico. Oltre il gesto di lasciare l’incontro con i sindacati prima della sua conclusione formale egli non andrà, per quanto il manifesto si sia azzardato col titolo di copertina “Indietro tutta”.

Non foss’altro per il dovere di non compromettere, a questo punto, anche il suo prestigio personale mentre sta per aprirsi a Roma il G20 a presidenza italiana, da lui faticosamente organizzato in mezzo alle tante crisi sparse nel mondo, Draghi andrà “dritto per la sua strada”, come gli contesta ogni giorno il solito Fatto Quotidiano. E manderà le decisioni del governo su manovra finanziaria, bilancio e quant’altro alle Camere, Dove i partiti, se vorranno o potranno, nel marasma politico in cui si trovano tutti, in maggioranza e all’opposizione, potranno pure farlo cadere. Ma per provocare cosa se non un’autorete verso la conclusione del cosiddetto semestre bianco? Che è il periodo in cui il capo dello Stato in scadenza, privo della possibilità di sciogliere le Camere, difficilmente potrà trovare una soluzione ordinaria, diciamo così, della crisi col respingimento delle dimissioni di Draghi e il rinvio del governo alle Camere, o il tentativo di formare un altro esecutivo.

Più facilmente -temo- Mattarella potrà essere preso dalla tentazione di dimettersi pure lui, anticipare la scadenza del suo mandato, sospendere la crisi di governo e obbligare le Camere a dare la precedenza all’elezione del successore, provvisto a quel punto di tutte le prerogative costituzionali. Ma a questo passaggio i partiti, che stentano a controllare i propri gruppi parlamentari, sono ancora più impreparati che alla formazione di un nuovo governo.

Poi, magari, si ripeterà al Quirinale la sfilata dei partiti del 1993, quando andarono tutti a supplicare il capo dello Stato in scadenza Giorgio Napolitano -in pendenza di una crisi, con Pier Luigi Bersani che non riusciva a fare il suo velleitario governo di “minoranza e combattimento” appeso agli umori dei grillini- di accettare una conferma implicitamente a termine, di un paio d’anni. Alla quale però, almeno sino ad ora, Mattarella ha già detto o fatto capire di non essere disponibile.

In una situazione così complicata, a dir poco, è già un affare che il segretario Enrico Letta abbia deciso di presentarsi ieri alla direzione del Pd parlando sì di “vittoria completa, totale” e quant’altro nelle elezioni amministrative, ma non più di “trionfo”, come fece a caldo dopo i ballottaggi comunali. Egli sa evidentemente che lo attendono, non meno degli altri leader e partiti, giorni assai difficili, in cui di trionfalismo si può anche finire assai male.

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