Quello delle pensioni è il vero nodo gordiano per Mario Draghi. Il premier finora aveva evitato non solo di affrontarlo ma persino di parlarne, fino ad una delle ultime conferenze stampa quando, a seguito di una domanda di un giornalista, ebbe a dire che ‘’quota 100’’ (62 anni di età e 38 di contributi) sarebbe arrivata, come previsto al capolinea e che il governo avrebbe adottato misure di alleggerimento dello ‘’scalone’’ (ovvero del fatto che a parità di contributi – 38 anni – il requisito anagrafico sarebbe salito a 67 anni oppure a 42 anni e dieci mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne a prescindere dall’età anagrafica).
In sostanza il sistema sarebbe rientrato di colpo sui binari della riforma Fornero che non è mai stata abrogata, ma solo derogata in modo sperimentale e temporaneo. In verità questo ‘’scalone’’ è una tigre di carta che serve a spaventare gli allocchi, perché lo spazio di interessi e condizioni, fino ad ora coperto da quota 100 potrebbe benissimo trovare riparo in un aggiustamento dell’Ape sociale che, in casi riconosciuti meritevoli di protezione a causa di particolari condizioni di lavoro e di vita, si applica facendo valere 63 anni di età e 30 o 36 anni di versamenti, a seconda delle differenti fattispecie.
Per individuare ulteriori situazioni di lavoro disagiato, oltre a quelle già previste nel 2017, ha lavorato (con eccessiva larghezza) una commissione presieduta da Cesare Damiano.
Tuttavia lo ‘’scalone’’ è entrato a far parte dell’immaginario collettivo e il governo ha ritenuto di trasformarlo in due scalini più bassi, superando ‘’in avanti’’ quota 100, che dal 2022 diverrebbe quota 102 (64 di età + 38 di contributi) e l’anno dopo quota 103 (66+38).
Oddio! Non è una gran soluzione; è un modo un po’ grossolano per cucire lo strappo che le misure del governo giallo-verde hanno effettuato nel sistema pensionistico.
Peraltro, è il caso di ricordare per inciso (non lo si fa quasi mai) che l’altra misura adottata insieme a quota 100 ovvero il congelamento rispetto all’aspettativa di vita del pensionamento anticipato ordinario (42 anni e 10 mesi per gli uomini e uno in meno per le donne) resterà in vigore fino a tutto il 2026. Una via d’uscita che si è rivelata molto più agevole (al 31/12/2020 pensioni 283.701) della stessa quota 100 (pensioni 267.802).
Se si vuole capire che cosa è successo al sistema pensionistico in seguito alle misure adottate dal governo giallo-verde nel 2018 (entrate in vigore col dl n.4 del 2019) può essere utile ricorrere a una metafora che ci riporta al clima di questi ultimi due anni.
Il sistema è stato contagiato dal covid-19 in forma grave e ne porta ancora le conseguenza sul suo apparato respiratorio, anche se è considerato guarito (ovvero sopravvissuto). Ma è praticamente impossibile recuperare il danno biologico che il soggetto trascinerà con sé per tutta la vita.
Il governo è consapevole di questo stato di salute e dei limiti che hanno le possibili cure. La proposta del ministro Daniele Franco (negli stessi termini avanzata dalla Corte dei Conti in un Rapporto di coordinamento della finanza pubblica) ha gli obiettivi limitati a salvare il salvabile. Il fatto è che, se il sistema è infestato dagli esiti del covid-19, sono in campo anche i No vax: la Lega, i sindacati a cui si aggiunge come elemento di disturbo il presidente dell’Inps, il quale somiglia ad un prestigiatore che estrae dal cilindro proposte di riordino anziché conigli bianchi.
Maurizio Landini e compagni sono come quelli che vorrebbero curare il contagio con farmaci in uso per gli equini. Infatti la loro proposta è talmente sballata che sembra intrisa di ivermectina. Con la faccia di tolla di chi sostiene che la terra è piatta, pretenderebbero di riportare il sistema indietro di una trentina di anni introducendo due vie d’uscita principali: 41 anni di versamenti a qualsiasi età oppure 62 anni di età e 20 di contributi. Sostanzialmente riducendo di ben 5 anni l’accesso al pensionamento di vecchiaia.
Una piattaforma contro il corso della storia perché sceglie di privilegiare l’anticipo rispetto all’adeguatezza del trattamento pensionistico.
Quanto alla Lega, Giancarlo Giorgetti ha chiesto di salvaguardare quota 100 nei settori privati mentre è d’accordo per quota 102 e 104 per i pubblici dipendenti (che Renato Brunetta vorrebbe invece ‘’svecchiare’’). Questa posizione rappresenta una marcia indietro ad usum Salvini. A gennaio di quest’anno, infatti, il gruppo del Carroccio alla Camera (primo firmatario Claudio Durigon seguito da tutti i maggiorenti) aveva presentato un pdl (AC 2588) nel quale all’articolo 2 veniva stabilito – come si legge nella relazione – di mantenere l’accesso alla pensione «quota 100» per i soggetti che svolgono i lavori usuranti individuati con i criteri già in uso ai fini dell’accesso all’APE sociale o alla pensione per i lavoratori precoci, eliminando però il meccanismo delle «finestre di attesa».
Posto che tali soggetti – era scritto – sono generalmente già destinatari del sistema misto di calcolo della pensione, si proponeva, pure, che anche tale prestazione fosse liquidata integralmente con il sistema contributivo. In sostanza, quota 100 sarebbe sopravvissuta a valere per una platea ridimensionata (a tutela della quale intervengono altri strumenti) e con l’applicazione, per di più, di una penalizzazione economica.
Pasquale Tridico, invece, insiste nel proporre una liquidazione della pensione in due tempi: prima e con modalità anticipate la quota contributiva, poi, al raggiungimento dei requisiti ‘’pieni’’ si aggiungerebbe la quota calcolata in regime retributivo. Una proposta questa che penalizzerebbe, senza nessun motivo, i soggetti che detengono nella loro storia lavorativa più lunghi periodi calcolati col metodo retributivo secondo quanto prevedevano le norme vigenti fino al momento della riforma Fornero che introdusse, a partire dal 2012, il contributivo pro rata.
Attenzione, però: le proposte del MEF, allo stato attuale degli atti, contengono degli errori tecnici che sarebbe meglio evitare. Se si passasse da quota 102 a quota 103 l’anno dopo si verrebbe a creare un altro scalone: infatti, tra uno scalino e l’altro dovrebbero trascorrere almeno due anni, in modo che ci sia un anno di tregua; altrimenti i soggetti che nel 2022 non raggiungessero i requisiti previsti, si troverebbero l’anno successivo intrappolati dal loro incremento così passerebbero direttamente al regime di quota 104.
Poi viene spontanea un’ulteriore riflessione: che senso avrebbe prevedere una forma di pensionamento anticipato a 66 anni un anno prima che maturi l’età di vecchiaia (67 anni)?
Infine sarebbe opportuno un minimo di flessibilità ancorché definita, come si fece a suo tempo con il riordino del 2007 dell’allora ministro Cesare Damiano; per esempio oltre ai requisiti di 64 + 38, prevedere una variante (magari solo questa) di 63 + 39.
L’esperienza di quota 100 ha dimostrato quanto sia difficile ‘’fare ambo’’ ovvero disporre dei due requisiti contemporaneamente. Con quota 100, infatti, è quasi sempre capitato, nel 2019, che gli utenti avessero un’età più alta di 62 anni (mediamente 64 anni) o una contribuzione superiore a 38 anni (in media 41 anni). Poi nel 2020 queste medie si sono abbassate, ma ad azzeccare l’ambo (62 +38) sono stati in tutto circa 30mila pensionati.