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Alternanza Scuola-lavoro

Perché critico le eccessive critiche al decreto Dignità sui contratti a termine

Il commento di Sergio De Nardis, già capo economista di Nomisma e fino a pochi giorni fa direttore del servizio Analisi Macroeconomica dell’Ufb (Ufficio parlamentare di bilancio) Il decreto Poletti ha frenato le tutele crescenti del Jobs Act. I propugnatori del Jobs act (ovvero del contratto a tutele crescenti) hanno da sempre criticato il decreto…

Il decreto Poletti ha frenato le tutele crescenti del Jobs Act.

I propugnatori del Jobs act (ovvero del contratto a tutele crescenti) hanno da sempre criticato il decreto Poletti che consentiva di rinnovare il contratto a tempo determinato con lo stesso datore di lavoro, fino a 5 volte nel corso di tre anni senza addurrre nessuna causale. Lo hanno criticato perché è una forma contrattuale estremamente conveniente per il datore di lavoro, che spiazza tutte le altre tipologie di assunzione inclusa quella a tutele crescenti, impedendone il decollo a meno di sostanziali incentivi posti a carico della finanza pubblica (sgravi contributivi).

Le assunzioni a termine, dopo la compressione del 2015 indotta appunto da generose facilitazioni fiscali per il lavoro permanente, sono molto cresciute negli ultimi anni e oggi rappresentano il 43% del totale nel settore privato, quelle a tempo indeterminato sono il 18%.

È evidente che i contratti a termine e altre forme contrattuali consimili devono esistere, fanno parte del normale operare dell’economia riflettendone la struttura. Ma bisogna essere consapevoli che esse portano, soprattutto se vi è un’estrema liberalizzazione, a persistente precarietà.

Le analisi degli economisti del lavoro mostrano che i lavoratori a termine non solo hanno una maggiore probabilità di incorrere in periodi di inoccupazione, ma anche che i loro salari sono molto più instabili rispetto agli occupati permanenti. E, data la distribuzione anagrafica di tali contratti, si sta parlando fondamentalmente di giovani.

L’obiettivo del Jobs act era quello di scambiare la libertà di licenziare (abolizione dell’articolo 18) con meno precarietà, cioè minore probabilità di periodi di disoccupazione e prospettive salariali più stabili, sulla cui base poter programmare un futuro investendo con l’impresa sulla propria crescita.

Il decreto Poletti che consentiva di fatto periodi di prova (con costo di licenziamento nullo) praticamente triennali è stato un ostacolo insormontabile a questo progetto. Se oggi un governo ritenuto sbagliato fa (magari incosapevolmente) una cosa che va nella giusta direzione forse è il caso di dirlo.

(commentato tratto da Facebook)

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