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Tunisia

Perché Confindustria e governo non si amano

Che cosa succede tra Confindustria di Bonomi e governo Conte?

Che tra Carlo Bonomi e l’attuale Governo non corresse buon sangue era noto da tempo. Ancor prima della sua elezione, per altro quasi plebiscitaria, alla presidenza di Confindustria. Troppo diretto il suo approccio ai problemi del Paese. Poco diplomatica la tendenza a dire ciò che è necessario dire. Basi sulle quali il neo presidente aveva costruito tutta la sua carriera. Mantenere il punto, comunque, non sarà facile. Non ci vorrà, forse, quel “fisico bestiale” di cui canta Luca Carboni. Ma certamente un temperamento adeguato.

Quasi quasi, verrebbe voglia di rinunciarci. Solo che non si può. Non si può se si vuole rappresentare il sistema industriale e produttivo italiano. Che in questi anni ha fatto tutto da solo. Andando contro corrente. Superando gli ostacoli di una politica, nelle migliori delle ipotesi, inconcludente. Un’Europa fin troppo chiusa in quelle certezze che, solo oggi, si stanno parzialmente sgretolando. Nel 2011, gli spread, in Italia, avevano raggiunto i 570 punti base ed il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti si era stabilizzato intorno al 3 per cento del Pil.

Dopo la svolta deflazionista di Mario Monti, che aveva costretto al fallimento centinaia di imprese, i sopravvissuti non avevano tirato i remi in barca. Ma si erano buttati a capofitto nelle acque procellose dei mercati internazionali per recuperare il terreno in parte andato perduto. Risultato? Lo lasciamo dire a Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, parafrasando il suo intervento durante le giornate dedicate dal Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, non sapremo dire con quanto profitto, all’ascolto dei cosiddetti “Stati generali”

“L’azione di riforma può fondarsi sui punti di forza della nostra economia, – afferma il Governatore – che si sono andati affermando anche negli ultimi difficili anni e che è bene ricordare.” Se le infrastrutture in qualche modo hanno tenuto, la migliore performance è stata quella del “settore manifatturiero” che, “già dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011–12, ha rapidamente recuperato competitività, portando in avanzo la bilancia dei pagamenti. Il debito netto con l’estero è oggi pressoché nullo. La ricchezza reale e finanziaria delle famiglie è elevata e il loro debito è tra i più bassi nei paesi avanzati; quello delle imprese è inferiore alla media europea; nel complesso, il debito privato ammonta in Italia al 110 per cento del PIL, più basso persino di quello della Germania (al 114 per cento), la metà di quello che si registra in paesi come la Francia (215 per cento) o l’Olanda (258 per cento)”.

Questi i progressi realizzati negli ultimi 6 o 7 anni, destinati a contrapporsi ad un debito pubblico in continuo aumento. Riflesso di una paralisi istituzionale, incapace di decidere. Con una politica che si trastullava con le tesi della “decrescita felice” o si esercitava nel tentativo di demolizione della “casta”. Con l’obiettivo di sostituirla con un personale non certo migliore ed una professionalità da far rimpiangere il bel tempo passato. In queste circostanze, le imprese hanno dovuto muoversi in solitudine. Affrontare, a mani nude, una concorrenza estera supportata dalla presenza degli altri Stati. Vincendo anche in patria, come dice la Commissione Europea (COM(2019) 651 final), un “contesto” a loro “non favorevole”. Nè potendo contare su una presenza internazionale dell’Italia, in grado di difendere le ragioni dello “sviluppo”, contro la semplice retorica della stabilizzazione finanziaria.

Imbarazzata, ma soprattutto ingiusta, l’ultima risposta del vice ministro dell’economia Antonio Misiani: “meno polemiche e più proposte”. In quelle otto cartelle, inviate a tutti gli associati di Confindustria, di proposte ce ne sono tante. Certo molte sono scomode, ma si può pensare di uscire da una crisi che non ha precedenti, nella storia più recente dell’umanità, con i pannicelli caldi di una vecchia tradizione, per altro fin troppo usurata? Domanda semplicemente retorica. Come retorica è la stanca liturgia di un Governo che ogni giorno promette nuove mirabilia. Salvo poi trovarsi di fronte a 684 decreti attuativi delle misure contenute nei decreti legge di una manovra fantasma. Di cui, come ricordava Sabino Cassese, “il 67% in stand by e 146 già scaduti”.

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