È stata una settimana in cui dagli Usa sono arrivati segnali ondivaghi e contrastanti a proposito della direzione che la Fed vorrà prendere in materia di tassi di interesse. Resta ferma, taglia o, inaspettatamente, aumenta?
Prima i dati sull’indice dei prezzi relativo alla spesa per consumi personali (+2,7% e +2,8% il dato “core”, contro attese leggermente inferiori); poi la giornata di mercoledì quando il Presidente della Fed, Jerome Powell, nel mantenere i tassi invariati, ha ribadito di non avere alcuna fretta di ridurre i tassi; infine, venerdì, i dati del mercato del lavoro hanno mostrato un netto rallentamento nella creazione di nuovi posti di lavoro, di pari passo con una relativa moderazione della dinamica rialzista dei salari.
In occasione di ciascun di questi eventi, i mercati – come è peraltro logico che accada – hanno ogni volta cambiato atteggiamento. Prima convinti che la riduzione dei tassi Usa si stesse allontanando nel tempo, se non proprio scomparendo. Poi, soprattutto venerdì, più fiduciosi in un taglio entro luglio.
Venerdì ha tirato un sospiro di sollievo anche Christine Lagarde e tutto il suo comitato esecutivo in Bce. Prospettive di riduzione dei tassi Usa rendono meno avventuroso il viaggio verso la riduzione che invece in Europa avrebbe dovuto essere cominciato da almeno un mese. Insomma, si attenuano le divergenze tra le politiche monetarie Usa e dell’eurozona. Con il cambio euro/dollaro che è risalito dai minimi intorno a 1,0650 proprio in conseguenza di queste mutate prospettive dei tassi Usa.
Ma per chi non ha necessità di guardare gli eventi con il microscopio, come è costretto a fare chi opera sui mercati e deve cogliere ogni singola tendenza, è cambiato poco.
Mettendo gli eventi in prospettiva, è ragionevole prevedere che l’economia Usa continuerà a manifestare segnali di discreta vitalità, sostenuta da un impressionante deficit federale intorno al 6% del Pil. Quindi non “higher for longer” ma solo “high for longer” (alti, non più alti più a lungo, riferito ai tassi).
Da questa parte dell’oceano, c’è da aspettarsi solo una crescita asfittica con numeri da prefisso telefonico (in cui la Germania è fanalino di coda) e tensioni inflazionistiche che, passata l’onda d’urto dei prezzi dei prodotti energetici, non si ridurranno. Questo perché il Green Deal e la dissennata corsa alle materie prime ad esso connesse, manterrà sempre alta la tensione sui prezzi. La transizione energetica è per definizione inflazionistica, perché determina enormi squilibri tra domanda (alta) e offerta (bassa e rigida). Per non parlare degli “ambiziosi” obiettivi di spesa collegati alla difesa, di cui si sa tutto, tranne chi li finanzierà e dove prenderà i soldi.
Il risultato è una strutturale divergenza dei sentieri su cui le economie Usa e Eurozona sono avviate. Certo, si potranno presentare oscillazioni nel breve periodo intorno a queste direttrici, ma la direzione quella è.
L’esito sarà una necessaria riduzione dei tassi nell’eurozona, ma probabilmente non superiore ai 100 punti nei prossimi 12 mesi. Non a caso i titoli a lungo termine sembrano aver raggiunto un pavimento che non riescono a sfondare, proprio per le aspettative di inflazione legate a fattori strutturali. Dall’altro lato, potrebbe esserci solo una modesta riduzione entro fine anno, ma nulla di più.
I sentieri si sono divisi e non basteranno piccole gobbe sul terreno a far cambiare direzione. E la Lagarde dovrà dimostrare di saper correre da sola, senza sfruttare “la ruota” del corridore Usa.