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Pensioni Inps

Perequazione 2020 pensioni, che cosa succederà davvero

I dettagli sul quadro della rivalutazione delle pensioni pubbliche per il 2020. L'intervento di Michele Poerio (presidente nazionale Federspev e segretario generale Confedir) e Carlo Sizia (direttivo nazionale Federspev)

Perequazione 2020 delle pensioni: quasi inesistente per le pensioni medio-alte.

Dopo il D.M. congiunto Economia-Lavoro del 15/11/2019, la Circolare INPS 147/2019 e l’ultima legge di bilancio (L. 160/2019) è chiaro e definitivo il quadro della rivalutazione delle pensioni pubbliche per il 2020.

In particolare, il D.M. anzidetto, su dati Istat, ha confermato (art. 1) la perequazione definitiva per il 2019 in misura del + 1,1% (quindi non ci sarà alcun conguaglio su quanto già percepito nel 2019), mentre l’art. 2 fissa in misura del + 0,4% la perequazione provvisoria, a partire dal 1° gennaio 2020, “salvo conguaglio da effettuarsi in sede di perequazione per l’anno successivo”.

Il conguaglio, positivo o negativo, non c’è stato negli ultimi 4 anni (2016, 2017, 2018 e 2019) perché svalutazione previsionale e definitiva sono risultate coincidenti, mentre ci sarebbe stato un conguaglio positivo se la svalutazione previsionale (stimata a settembre) fosse risultata inferiore a quella definitiva, al contrario il conguaglio sarebbe stato negativo qualora la svalutazione definitiva fosse risultata inferiore a quella prevista in via provvisoria.

Qui di seguito vengono riportati gli indici di svalutazione (provvisori e definitivi) e di rivalutazione degli ultimi 14 anni.

poerioPer effetto dell’anzidetto D.M., nel 2020: il trattamento minimo INPS passa da 513,01 €/mese a 515,07 €/mese; il valore dell’assegno sociale da 457,99 €/mese a 459,83 €/mese; la pensione sociale passa da 377,44 €/mese a 378,95 €/mese.

L’ultima legge di bilancio (L. 160/2019) ha poi disposto che gli assegni di importo tra 3 e 4 volte il minimo INPS siano rivalutate del 100% (anziché del 97%) rispetto all’indice di riferimento, portando così le diverse fasce di importo previste dalla legge 145/2018 (che graduano la percentuale di rivalutazione in misura decrescente in rapporto al crescere della pensione complessiva) da 7 a 6, secondo lo schema seguente:

  • fino a 4 volte minimo INPS 2019 ( 2.052,04 €) + 100% indice Istat= + 0,400% di aumento;da 4 a 5 volte “ ( da
  • 2.052,05 a 2.565,05 €) + 77% ind. Istat = + 0,308% di aumento;
  • da 5 a 6 volte “ ( da 2.565,06 a 3.078,06 € ) + 52% ind. Istat = + 0,208% di aumento;
  • da 6 a 8 volte “ (da 3.078,07 a 4.104,08 € ) + 47% ind. Istat = + 0,188% di aumento;
  • da 8 a 9 volte “ (da 4.104,09 a 4.617,09 €) + 45% ind. Istat = + 0,180% di aumento;
  • oltre 9 volte minimo INPS ( da 4.617,10 € in poi) + 40% ind. Istat = + 0,160% di aumento.

Ricordo peraltro che continua ad operare il criterio di perequazione introdotto dalla legge Letta (L. 147/2013), che è nettamente peggiorativo rispetto al meccanismo precedente (L.388/2000), infatti l’incremento interviene (ed in misura decrescente) sulla base dell’intero importo della pensione goduta, anziché in misura distinta (a scaglioni, cioè), come avveniva in precedenza per i vari segmenti di una singola pensione.

Si passa quindi per le pensioni medio-alte (diciamo quelle oltre le 6 volte il minimo INPS) da un recupero complessivo tra l’80 – 85%, rispetto all’inflazione accertata, a meno del 50%.

Anche la legge Fornero (L. 114/2011), pur non modificando i criteri della legge 388/2000, aveva pesantemente alterato la perequazione previgente, escludendo per il biennio 2012 e 2013 dalla rivalutazione tutte le pensioni di importo oltre le 3 volte il minimo INPS. Anche il decreto legge 65/2015 (convertito in legge 109/2015), intervenuto dopo le censure della sentenza 70/2015 della Corte costituzionale, non ha sanato le malefatte dei nostri legislatori sprovveduti, ristorando in modo parziale e decrescente i percettori di pensioni di importo oltre le 3 volte il minimo INPS e fino alle 6 volte, lasciando ancora totalmente senza rivalutazione le pensioni di importo oltre le 6 volte il minimo.

Gli unici pensionati sempre tutelati dall’inflazione ufficialmente riconosciuta sono stati pertanto, anche negli anni difficili della congiuntura economica, esclusivamente i titolari di assegni fino a 3 volte il minimo INPS (fino a 4 volte il minimo, dal 2020).

Prendendo a riferimento gli ultimi 11 anni (dal 2008 al 2018 compresi), si può dire con sicurezza che gli interventi peggiorativi sulla perequazione delle pensioni oltre le 6 volte (e ancor più oltre le 8 volte il minimo INPS), intervenuti per il 72,72% del periodo anzidetto in deroga ai criteri della legge 388/2000, hanno determinato una perdita permanente del potere d’acquisto delle pensioni in questione di non meno del 10-15%, in concreto da 500 € netti mensili circa a più di 1000 € mensili, anche senza tener conto dell’appesantimento fiscale delle addizionali comunali e regionali intervenute dai primi anni duemila e del taglieggiamento crescente dei cosiddetti “contributi di solidarietà”.

Nel 2021 si potrà dire che la perequazione delle pensioni medio-alte è stata azzerata, o fortemente limitata, in 11 degli ultimi 14 anni (78,57 % del periodo), calpestando fondamentali principi costituzionali (in particolare quelli dell’art. 38) e decine di sentenze della Corte.

Anche senza gli interventi sgraziati anzidetti, c’è da dire che la perequazione automatica delle pensioni non raggiunge mai il pieno ristoro dall’inflazione per almeno i seguenti principali motivi: 1) perché il recupero interviene in tempi successivi rispetto al momento dell’insulto inflattivo; 2) perché il “paniere” che pesa l’incremento del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati non è specifico per le persone anziane, anche se rappresenta la base per la rivalutazione riconosciuta delle pensioni; 3) perché, anche in via ordinaria, la percentuale di rivalutazione è riconosciuta in misura progressivamente decrescente al crescere dell’importo della pensione goduta.

Come se ciò non bastasse, dal 2019 e per 5 anni, fino al 2023 (quindi oltre il limite triennale di competenza delle leggi di bilancio) è ritornato il “contributo di solidarietà”, secondo i seguenti criteri:

– 15 % sugli importi delle pensioni oltre i 100.160 € lordi/anno e fino a 130.208 €;
– 25 % sulla parte che eccede i 130.208 € e fino ai 200.320 €;
– 30 % sulla ulteriore parte che eccede i 200.320 € e fino ai 350.560 €;
– 35 % sulla parte che eccede i 350.560 € e fino ai 500.800 €;
– 40 % per la parte ancora eccedente rispetto ai 500.800 € lordi/anno.
Contro la cattiva legislazione previdenziale evidenziata, oggi non rappresenta più un argine neppure la Corte costituzionale, soprattutto in ragione dei criteri di nomina dei relativi componenti, basati su valutazioni politico-partitiche, anziché su solide motivazioni di competenza, valore, imparzialità.

Assistiamo quindi spesso a sentenze della Corte che rivelano un imbarazzante ossequio rispetto agli input che provengono dal Palazzo, anche a costo di sconfessare lettera e spirito di principi e valori della Costituzione vigente (su tutti quelli di cui agli artt. 3, 36, 38 e 53) e decine di precedenti sentenze della Corte stessa su analoga materia (da ultimo, la sentenza 250/2017, che ribalta la precedente sentenza 70/2015).

Le pensioni ENPAM non subiscono variazioni del sistema di indicizzazione nel 2020: + 75% indice Istat fino a 4 volte il minimo INPS; +50% da 4 volte in su. Per tali pensioni non opera neppure il “taglio” sulle pensioni oltre i 100.000 € lordi/anno, come sono escluse le pensioni liquidate in regime di cumulo o totalizzazione che coinvolgono le Casse di previdenza dei liberi professionisti, come chiarito dall’INPS con Circolare 116/2019.

Le pensioni di reversibilità ENPAM (aliquota 70%) non subiscono abbattimenti in base ai redditi del beneficiario superstite, mentre quelle INPS-ex INPDAP (aliquota ordinaria 60%) non subiscono tagli sulla base dei redditi solo fino a 3 volte il minimo INPS (20.087,73 €/anno); – 25% per i redditi tra 3 e 4 volte il minimo INPS (oltre 20.087,73 fino a 26.783,64 €/anno); – 40% per i redditi tra 4 e 5 volte il minimo INPS (oltre 26.783,64 fino a 33.479,55 €/anno); – 50% per i redditi del beneficiario che superino le 5 volte il minimo INPS (oltre 33.479,55 €/anno).

Di fronte a tanto sfascio, speriamo almeno che vada felicemente in porto il ricorso promosso dalla FEDER.S.P.eV. e CONFEDIR contro le disposizioni previdenziali della legge 145/2018 del Governo Conte 1°, come farebbero presumere le lucide argomentazioni dell’Ordinanza della Corte dei Conti Friuli Venezia Giulia dell’ottobre scorso nel sollevare la questione di legittimità costituzionale in tema di perequazione e contributi di solidarietà. Infatti la nostra Carta costituzionale (è bene ricordarlo ai giudici della Corte) ha una ragion d’essere se è rispettata e fatta rispettare.

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