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Quota 100

Pensioni e quota 100, che cosa succederà

Sulle previsioni della spesa pensionistica pesa il sensibile aumento del numero di soggetti che accedono al pensionamento anticipato, con quota 100 e non solo. L'intervento di Giuliano Cazzola

Le previsioni della spesa pensionistica continuano a scontare il sensibile aumento del numero di soggetti che accedono al pensionamento anticipato, con quota 100 e le altre opzioni. “Secondo la previsione a legislazione vigente, una crescita della spesa per pensioni più contenuta rispetto a quella dell’economia contribuirà a far scendere il rapporto tra tale spesa e Pil, dal 17,1% del 2020 al 16,2% nel 2023. Cionondimeno, la spesa per pensioni a legislazione vigente nel 2023 risulterà più alta di 0,8 punti percentuali in rapporto al Pil in confronto al 2019”.  Così è scritto nella Nadef (il documento che – a detta di Conte – è ancora di riferimento per la manovra di bilancio, nonostante il ‘’brutto scherzo del covid’’ e le conseguenti onerose misure di ‘’ristoro’’).

Insomma, le politiche previdenziali del Conte 1 presentano la nota spese al Conte 2. Va da sé che sull’incidenza della spesa pensionistica influisce, al denominatore anche la caduta del Pil. Ma il 17,1% è un record: 25 anni di riforme e controriforme possono andare al macero. Viene confermato, comunque, che ‘’quota 100 arriverà a scadenza alla fine del 2021. Va ricordato, per chiarezza, che quanti matureranno i requisiti previsti entro quella data si porteranno appresso la possibilità di esercitare successivamente il diritto al pensionamento anticipato.  Sarebbe, tuttavia, il caso di spiegare all’opinione pubblica che ‘’quota 100’’ non ha mancato soltanto l’obiettivo di sostituire gli anziani in uscita con l’assunzione di giovani (come ormai è riconosciuto da tutti gli osservatori), ma non ha convinto neppure i destinatari di questo provvedimento. Le pensioni erogate attraverso ‘’quota 100’’ e le altre misure sono state, nel 2019, inferiori alle previsioni (290mila): ovvero 156mila nei settori privati (dipendenti, autonomi, parasubordinati); 41mila nei settori pubblici dove, prima ancora che oneri, si sono determinati – come ha scritto e documentato Claudio Cerasa – seri disservizi. Nel pubblico impiego, le previsioni della Relazione tecnica sono state confermate in misura del 50%; mentre, nei comparti privati, solo del 15%. In settori delicati come la sanità, la giustizia e la scuola, erano noti i guai che avrebbe prodotto l’introduzione di un’ulteriore via d’uscita anticipata per di più con carattere temporaneo e sperimentale. Per la piega imprevista che hanno preso le cose, la sanità balza in primo piano. A gettare l’allarme, subito dopo la conversione del decreto giallo-verde, in vista dell’applicazione di quota 100 non fu Elsa Fornero, ma un importante sindacato dei medici ospedalieri: quelli che mesi dopo si trovarono in prima linea a reggere l’assalto del virus. Riportiamo un brano significativo di un articolo apparso sul Quotidianosanità.it del 15 marzo 2019: ‘’ Sono circa 140mila gli operatori sanitari dipendenti del Servizio sanitario nazionale che a fine 2018 avevano raggiunto i requisiti per “Quota 100”. E di questi oltre 40mila (tra il 22 e il 26% per i dirigenti e il 28 e il 35% per il personale non dirigente sulla base delle nostre stime effettuate tenendo conto della percentuale di domande fino ad oggi presentate sul totale degli aventi diritto) sono tra i possibili ‘pensionandi’ con il nuovo meccanismo. I primi a segnalare il pericolo – proseguiva l’articolo – erano stati i medici dei quali si considerava possibile una fuoriuscita di circa 4.500 professionisti. Poi, il personale infermieristico, la categoria più numerosa del Ssn, di cui si prevedeva un esodo di oltre 22mila unità. ‘’Assistenza più che a rischio, pertanto, soprattutto nelle Regioni che stanno peggio, quelle con i piani di rientro, dove le carenze di personale sono già gravi e pesano sui servizi: oltre il 35% di chi potrebbe andare in pensione con Quota 100 è nei loro territori’’. L’articolo, poi, era accompagnato dalla sottostante tabella molto specifica per le diverse professioni che, tenendo conto di quanti operatori avevano maturato i requisiti previsti da quota 100, ipotizzava delle stime sui possibili esodi sia in valore assoluto che in percentuale. E’ appena il caso di sottolineare che le preoccupazioni, allora, esistevano rebus sic stantibus, poiché la minaccia della pandemia non appariva neppure negli incubi di qualche virologo.

Ma il segnale era chiaro: anche se gli esodi non avessero raggiunto i picchi previsti (ma le regole della contabilità impongono di calcolare gli oneri sulla base di tutti gli aventi diritto) , il Servizio sanitario sarebbe stato in difficoltà pure in condizioni normali. La situazione era nota, ma fu ignorata. Peraltro, in un contesto critico per quanto riguardava il personale. Come ha certificato la Corte dei Conti: ‘’Tra il 2012 e il 2017 (anno per il quale si dispone di un maggior dettaglio di dati) il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le Aziende Ospedaliere, quelle universitarie e gli IRCCS pubblici è passato da 653 mila a 626 mila con una flessione di poco meno di 27 mila unità (-4 per cento). Nello stesso periodo il ricorso a personale flessibile in crescita di 11.500 unità ha compensato questo calo solo in parte: si tratta in prevalenza di posizioni a tempo determinato, che crescono del 36,5 per cento (passando da 26.200 a 35.800), e di lavoro internale, che registra una variazione di poco meno del 45 per cento (da 4.273 a 9.576 unità)’’. E’ singolare, allora, che – mentre si va alla ricerca di cosa non ha funzionato e si denunciano i tagli alla sanità pubblica – nessuno abbia il coraggio di ricordare una delle cause più recenti delle difficoltà riscontrate nell’emergenza, per quanto riguarda l’adeguatezza degli organici.

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