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Riforma Fiscale

Patent box 3.0? No grazie, ecco perché

L'approfondimento di Edoardo Belli Contarini, tributarista, partner dello Studio Fantozzi

 

Il legislatore, dopo la conversione del d.l. n. 146/2021 senza modifiche sul tema, si accinge a mettere mano al regime patent box per la terza volta, per porre rimedio al precedente intervento di abrogazione del beneficio, in sede di legge di bilancio; tuttavia, anche questa volta il rimedio risulta peggiore del male. Ma procediamo con ordine, anche perché, come vedremo, “la storia insegna”.

La detassazione del reddito di impresa derivante dai c.d. IP è stata inserita dalla legge n. 190/2014, con il pacchetto “Industria 4.0”, e poi rafforzata e semplificata, soprattutto per le Pmi innovative, da ultimo con il c.d. “decreto crescita” n. 34/2019. Infatti, quest’ultimo provvedimento ha contemplato il meccanismo di autoliquidazione, cioè la facoltà per l’impresa di determinare in modo autonomo il beneficio, senza la necessità di presentare alcun ruling all’Agenzia delle entrate; ciò che ha reso ancor più appealing l’agevolazione, che, purtroppo, all’improvviso, è stata abrogata dall’art. 6 del d.l. n. 146/2021, con effetto ex tunc, cioè facendo salve soltanto le opzioni PB esercitate entro la data di entrata in vigore del medesimo decreto.

Ciò sebbene la detassazione PB fosse un incentivo fiscale: i) compliant con la normativa Ocse e gli standard internazionali; ii) di stimolo delle performance, in quanto incidente sul reddito  conseguito dall’impresa innovativa, iii) con l’obiettivo di “tutela della base imponibile nazionale” ovvero di attrarre l’allocazione in Italia degli IP e di scongiurare la ricollocazione all’estero degli stessi intangibles (cfr. sito del MISE e circolari AdE n. 36/2015, n. 11/2016, n. 28/2020); iv) caratterizzato sì da un certo tasso di complessità, in ordine alla quantificazione del “contributo economico” implicito che deriva(va) dall’IP, che concorre algebricamente a formare il reddito di impresa parzialmente agevolato, ma ormai rodato e sperimentato da tempo, sia dall’amministrazione finanziaria, sia dalle imprese, in virtù di un framework normativo e di prassi ormai compiuto e stabilizzato, pure in ordine alla c.d. “penalty protection”, v) cumulabile, in modo virtuoso, con il credito di imposta R&S, che, diversamente dal PB, in modo sinergico, premia(va) i costi dell’innovazione, vi) che incide(va) positivamente anche a posteriori, cioè al momento dell’exit ovvero di acquisizione dell’impresa innovativa, da parte degli investitori, anche esteri, che, in sede di due diligence, computa(va)no la parziale imponibilità dei redditi realizzati dalla società target.

Insorge dunque spontanea la domanda sulla convenienza di abolire tale virtuoso e ormai “metabolizzato” incentivo fiscale, che, per comodità di lettura chiameremo “PB 1.0”, sostituendolo – più di recente – per effetto dell’art. 6 del d.l. n. 146/2021, con il “PB 2.0.”: trattasi della c.d. “super-deduzione” del 90% dei costi di R&S afferenti l’implementazione degli IP e segnatamente dei software protetti da copyright, brevetti, marchi di impresa, disegni e modelli, know how; inoltre, la stessa norma ha previsto pure il divieto di cumulo di tale iperdeduzione con l’utilizzo in compensazione del credito di imposta R&S.

Aggiungasi che traslare l’incentivo fiscale, che premia(va) i risultati e quindi il reddito prodotto dagli IP, versus i costi, a prescindere dalla performance in concreto realizzata, lascia interdetti, poiché in tal modo risultano premiate le grandi imprese, che hanno a disposizione cospicue risorse – ad esempio quelle farmaceutiche – a discapito delle Pmi, le quali invece, hanno un budget di spesa più limitato, ma un potenziale di crescita molto significativo.

Lo scopo dichiarato del “PB 2.0”, recitava la relazione illustrativa al d.l. n. 146/2021, dovrebbe individuarsi, anzitutto, nel tentativo di semplificare la previgente agevolazione, e in effetti questo ci può stare, anche se la nuova disciplina porta con sé una semplificazione soltanto apparente, implicando diversi elementi di incertezza applicativa, adesso tutti da colmare ex novo dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate, che, nel delineare la definizione di  “ricerca e sviluppo”, almeno in passato, ha ingenerato molte incertezze.

L’altro obiettivo del c.d. “PB semplificato” ovvero “PB 2.0” – sarebbe quello di contenere i costi per la finanza pubblica, scaturenti dalla perdurante applicazione del “PB 1.0”, anche a motivo della semplificazione recata dall’art. 4 del cennato d.l. n. 34/2019.

Ma anche quest’ultimo assunto è tutto da verificare, poiché per misurare il risparmio per l’erario – quello effettivo e poi di quanto? – dovrebbero contrapporsi l’impatto, sempre in termini di gettito, riveniente dall’azzeramento del relativo “indotto”, nonchè dall’effetto di “fuga” e conseguente ricollocazione all’estero degli IP (con i relativi redditi che sarebbero tassati altrove) e degli investimenti (che seguirebbero la medesima sorte per ragioni di sostanza e coerenza nella creazione del valore, come prescritto dal progetto BEPS). A tal proposito, si pensi a quanto detto all’inizio circa la ratio del “PB 1.0”, preordinato invero alla “tutela della base imponibile nazionale”, cioè all’attrazione e al mantenimento in Italia di risorse e investimenti, che altrimenti sarebbero allocati in altri Paesi, che già contemplano un incentivo analogo.

Senza contare poi, che per il finanziamento di quest’ultima misura fiscale – il “PB 1.0.” – potrebbe attingersi dai fondi del PNRR (almeno per alcuni specifici settori che si ritengono strategici per gli anni a venire) e che, anche sotto tale profilo, bisogna distinguere tra “spesa buona” e “spesa cattiva”; ma se il “PB 1.0” è stato adottato nel 2017 anche da Israele e nel 2020 dalla Svizzera “a sensazione” quest’ultimo sembra rientrare più nella prima categoria che nella seconda.

Orbene, adesso, in sede di legge di bilancio, si vorrebbe intervenire sul “neo-convertito” d.l. n. 146/2021, proprio a seguito delle proteste di imprese e professionisti contro il “PB 2.0”, correndo ai ripari: viene concepito – anche qui per comodità di lettura – il “PB 3.0” allo scopo di “compensare” gli effetti negativi recati dall’abolizione del “PB 1.0” e dal novellato, ma soltanto nel “nomen”, e non già nella sostanza, “PB 2.0.”, inserendo i seguenti correttivi.

Il “PB 1.0.” sopravvive, ma soltanto per le opzioni esercitate con riferimento al 2020; dunque il beneficio viene eliminato, con effetti soltanto ex nunc, con buona pace del principio di irretroattività della legge tributaria di cui allo “Statuto dei diritti del contribuente”; anche se, quanto alla pianificazione e agli investimenti sull’innovazione, siamo arrivati ormai in fondo all’esercizio 2021.

Si cancella il divieto di cumulo tra “PB 2.0.” – rectius ora “PB 3.0.” – e utilizzo in compensazione del credito di imposta R&S, che quindi possono applicarsi insieme; dal 2020 in poi, l’impresa può tornare anche sui suoi passi, e scegliere persino tra “PB 1.0” già opzionato e “PB 3.0”.

Si incrementa la super-deduzione dei costi R&S, innalzandola dal 90% al 110%, sulla falsariga del famigerato “superbonus”, forse per rendere ancora più appealing tale regime, e si consente di recuperare i costi sostenuti negli otto anni precedenti alla registrazione dell’IP.

Tuttavia, il perimetro del “PB 3.0.” viene limitato, espungendo i marchi di impresa, forse alla luce delle indicazioni dell’Ocse; e, in cauda venenum, viene eliminato pure il Know how, che però sin dall’inizio è sempre stato premiato, rappresentando un intangible molto importante nel nostro Paese, tant’è che risulta anche giuridicamente tutelabile ai sensi degli artt. 98 e 99 del Codice della proprietà intellettuale di cui al d.lgs. n. 30/2015.

L’effetto è disruptive, perché, oltre alle illustrate conseguenze negative scaturenti dell’abolizione del “PB 1.0”, risulta difficile capire la strategia di fondo perseguita dal legislatore: forse l’obiettivo è quello della “semplificazione” del regime, ma come dimostrato, così non è.

Forse si persegue l’obiettivo di contenere il debito pubblico, ma vedendo il fenomeno nel suo complesso, verosimilmente così non è, sebbene la valutazione definitiva di impatto sul gettito spetti alla Ragioneria generale dello Stato.

In ogni caso, pur considerando la discrezionalità del legislatore, trattandosi di “debito buono”, ci sono ampi spazi per finanziare il mantenimento del “PB 1.0”, magari razionalizzando e tagliando alcuni incentivi varati negli ultimi due anni, anche in funzione di “aiuti e sostegni” anti-Covid.

Un altro rimedio ci sarebbe. Trattasi di un’idea semplice, ma forse, in quanto tale, di facile ed immediata applicazione concreta: piuttosto che introdurre l’ennesima, complicata e ancora tutta da regolamentare ex novo agevolazione, sub specie di “PB 2.0” e/o “PB 3.0” – alla stregua del “superbonus 110%” – al fine di semplificare l’operatività delle imprese, dei consulenti e della stessa amministrazione finanziaria e di scongiurare un deflagrante contenzioso tributario, come sta accadendo per il credito di imposta R&S, e come accadrà di sicuro per lo stesso “superbonus 110%”, sarebbe meglio decretare la definitiva sopravvivenza, o meglio la “reviviscenza”, dello sperimentato “PB 1.0”.

Al limite – “la storia insegna” – se proprio necessario, la detassazione del reddito da IP fino ieri stabilita nella misura del 50%, potrebbe essere rimodulata verso il basso, come avvenuto all’inizio negli anni 2014-2015, cioè nella misura del 40%- 30% per cento.

Non ce ne vogliano le imprese, ma pare di capire che, a motivo della brutta piega che ha preso questa vicenda, a titolo di compromesso, bisognerà comunque rinunciare a qualcosa per tenersi il “vecchio e amato PB 1.0”.

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