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Opa Cdp su Tim, ecco tutti gli inghippi

Rischio consolidamento del debito pubblico, ricapitalizzazione di Cdp (ipotesi su cui le fondazioni borbottano). Ecco i due scenari insiti nel progetto (caldeggiato da Fratelli d'Italia) di un'Opa di Cassa depositi e prestiti su Tim. Fatti, numeri, indiscrezioni e approfondimenti

 

Ma la Cdp ha i capitali necessari per lanciare un’Opa su Tim secondo i desiderata di Fratelli d’Italia?

Non è una domanda oziosa viste le ultime novità – politiche e borsistiche – su Tim.

Nell’ultima seduta prima di Ferragosto un forte flusso di acquisti si è riversato sul titolo del gruppo che vede tra i maggiori azionisti Vivendi (23,75%) e Cdp (9,81%), facendolo tornare a 0,24 euro con un balzo del 6%.

Ora la società in Borsa vale 5 miliardi di euro, ha ricordato il quotidiano Repubblica: “Gli investitori di Piazza Affari hanno di nuovo sentito profumo di Opa (dopo quella annunciata ma mai lanciata dal fondo Kkr) leggendo le indiscrezioni riportate da Bloomberg riguardo un piano per la società studiato da Fratelli d’Italia, il partito che i sondaggi danno per vincente alle prossime elezioni”.

Il piano del partito presieduto da Giorgia Meloni prevede che la Cdp lanci un’Opa sul 90% delle azioni non possedute per poi procedere allo spezzettamento, tenendo la rete e vendendo a operatori terzi tutto il resto.

Qui sorgono due problemi.

Il primo è un rischio per i conti pubblici italiani. Come spiegato da Francis Walsingham su Startmag, in base alle regole Eurostat, ribadite anche in una comunicazione della Commissione europea, in operazioni politiche come quella adombrata per Cdp si potrebbe arrivare a un consolidamento del debito. In sostanza, se finora la Cassa non rientra nel perimetro della pubblica amministrazione, in caso di Opa della Cassa su Tim chiesta dalla politica il debito di Cdp o parte di esso diventerebbe a tutti gli effetti debito pubblico.

C’è poi un secondo problema.

L’Opa della Cassa su Tim costerebbe intorno ai 5 miliardi di euro. Cdp ha i soldi necessari?

A fine giugno 2022, data della semestrale, la società controllata dal ministero dell’Economia e partecipata dalle fondazioni aveva un capitale disponibile di 1,4 miliardi di euro.

Un livello più alto di quello del recente passato ma non sufficiente per un’Opa su Tim.

Ha chiosato giorni fa il Sole 24 Ore sul processo di ricostituzione del capitale disponibile su cui sono al lavoro i vertici di Cassa, un capitale che negli ultimi anni “si è andato assottigliando a causa di un utilizzo importante dello stesso in operazioni di finanza (tanto che a fine 2021, quando si è insediato il nuovo management, l’asticella segnava 300 milioni a fronte degli oltre 4 miliardi del 2018). Un percorso, quello della ricostituzione del capitale disponibile, che fa leva sulla gestione delle partecipazioni secondo un principio di razionalizzazione e rotazione di quelle esistenti, una volta centrati gli obiettivi, e su una più prudente gestione del pay out che è stato riportato al 55% statutario”. Mentre dal 2018 al 2020 – come si rileva da un’elaborazione dei dati societari di Cdp – il pay out è stato dell’80% e nel 2018 del 100%.

Morale della favola: in caso di un’Opa su Tim, la Cassa avrebbe necessità di essere ricapitalizzata dai soci. In sostanza, Ministero dell’Economia e fondazioni bancarie dovrebbero sborsare soldi per aumentare il capitale della Cdp. Per il Mef, azionista con l’82,77%, un esborso di 4 o 5 miliardi non rappresenterebbe un problema insormontabile, se la contropartita fosse, appunto, la soluzione definitiva sulla rete unica.

E per le fondazioni ex bancarie? I 65 enti azionisti di Cassa nati con la legge Amato nel 1990 controllano complessivamente il 15,93% del gruppo di via Goito. Una quota di minoranza ma significativa: infatti secondo l’articolo 14, comma due, dello statuto l’assemblea di Cdp è regolarmente costituita e può deliberare sia in ordinaria sia in straordinaria solo se è presente almeno l’85% del capitale sociale. Quel 15,93% dà quindi alle fondazioni un potere enorme: senza di loro l’assemblea di Cdp è nulla (il resto del capitale, pari all’1,3% è di azioni proprie).

In caso di ricapitalizzazione che cosa farebbero le fondazioni? “E’ improbabile che tutti gli enti di estrazione creditizia partecipino alla ricapitalizzazione, i loro conti attuali non lo permettono”, confida un addetto ai lavori vicino al mondo delle fondazioni. Ma se cosi fosse, scenderebbero al di sotto di quel 15% che, come detto, è soglia cruciale perché svolgano un ruolo attivo. Se poi, addirittura, in massa non accorressero all’appello del nuovo governo, potrebbero scendere anche al di sotto del 10% e perderebbero quindi (secondo l’articolo 15 del statuto) il diritto a presentare una propria lista e ad avere rappresentanti nel cda di Cassa, compreso il presidente.

Chissà se in casa Fratelli d’Italia qualcuno ha presente questa situazione. In via del Corso a Roma, dove ha sede l’Acri (l’associazione di categoria delle fondazioni) e nella milanese via Daniele Manin, sede dell’iconica Fondazione Cariplo, sono già sul piede di guerra.

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