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Mes

Perché i consigli sussurrati di Monti al governo non convincono

Cosa sbaglia Mario Monti sulla riforma del Mes e sull'eventuale ratifica del Parlamento. L'analisi di Giuseppe Liturri.

 

Ci avviciniamo sempre con il necessario rispetto alla rituale articolessa del Senatore Mario Monti sul Corriere della Sera (L’Italia e le sirene di Ulisse). Purtroppo, con altrettanta regolarità, al termine della lettura raccogliamo solo materiale per descrivere ai lettori alcune fattuali inesattezze, a partire dall’ormai vecchio tema della riforma del Mes e relativa eventuale ratifica da parte del nostro Parlamento.

Prima di soffermarci su questo punto, ci preme rilevare che Monti abusa del noto artificio retorico di confutare una tesi della controparte, scegliendosi, o meglio inventandosi la controparte ed anche la tesi ad essa attribuita. Troppo facile vincere così.

Monti evidenzia una fantomatica differenza tra un’ala del governo, guidata dal Presidente Giorgia Meloni, aperta al dialogo ed attenta ad “utilizzare appieno le opportunità offerte dall’appartenenza alla UE”, ed un’altra di cui viene offerta una rappresentazione caricaturale da aneddotica da bar, come “battere i pugni sul tavolo”, “vogliono metterci sotto, ma mica siamo l’Italietta, noi, e glielo faremo vedere!”.

Ora, comprendiamo il nemmeno tanto recondito desiderio del Senatore di vedere il nuovo governo presentarsi a Bruxelles come un’armata Brancaleone ed essere costretto ad una sconfitta disastrosa, ma se c’è un aspetto su cui questa maggioranza è stato particolarmente compatto è proprio quello del profilo difensivo che ha volutamente evitato suicide esibizioni muscolari sia sul fronte politico che su quello finanziario.

Un atteggiamento tattico certamente criticabile da parte di chi avrebbe voluto un confronto più aspro con le istituzioni europee, ma che ha consentito alla Meloni – prendendo ad esempio lo sbarco in Normandia degli Alleati nel 1944 – di conquistare le prime centinaia di metri di Omaha beach, senza essere ricacciata in mare. Certamente il costo politico è stato elevato, ma osiamo sperare che la Meloni abbia voluto considerarlo un investimento che potrebbe produrre il suo ritorno in un arco temporale più lungo.

Quindi ci dispiace dissentire dal Senatore Monti ma, purtroppo per lui, noi non vediamo un’accozzaglia di sprovveduti ansiosi di presentarsi a Bruxelles, con ciabatte e secchiello in testa, a sbattere i pugni nel vuoto.

Concordiamo sul fatto che le ultime decisioni sia di politica monetaria che di politica fiscale non abbiano un fine specificamente punitivo verso l’Italia. Infatti, anche in questo caso, le critiche vere, non quelle scelte pro domo sua da Monti, vertono sulla scarsa credibilità e sul disordine verbale registrato in occasione delle ultime uscite della Bce. Sono critiche a prescindere dagli effetti sull’economia del nostro Paese e provengono da numerosi commentatori della stampa internazionale.

La Bce non ha capito la natura dell’inflazione già in crescita nell’autunno 2021, a guerra non ancora cominciata e – come ha correttamente rilevato il professor Giovanni Tria sul Sole 24 Ore di sabato – non sta capendo nulla nemmeno oggi. Infatti disegna scenari di inflazione soggetti ad elevata incertezza e, sulla base di essi, si impegna ad aumentare ancora i tassi per un periodo prolungato, accettando anche il rischio di mandare in recessione l’eurozona. Ma l’esito di tali manovre sull’inflazione appare almeno dubbio e quindi l’esito finale potrebbe essere quello di avere recessione ed inflazione insieme. Queste sono le critiche serie alle istituzioni europee, non quelle apparecchiate ad hoc da Monti, per avere gioco facile nello smontarle.

Sul Mes l’artificio retorico dell’attribuire al proprio interlocutore le tesi che fanno più comodo, scegliendo fior da fiore, è di nuovo applicato alla perfezione.

Monti immagina il governo Meloni come un novello Ulisse che, pur di non correre il rischio di farsi ammaliare dalle sirene (cioè chiedere il prestito del Mes) si incatena all’albero maestro della nave (cioè non ratifica la riforma del Trattato) e, con sé, incatena pure gli altri 18 paesi dell’eurozona. Se l’obiettivo è non prendere i prestiti del Mes, esistono “modi meno omerici” per farlo, sostiene Monti.

Quali siano questi metodi non è dato sapere, perché è vero che ratifica del Trattato non significa obbligo di richiesta dei prestiti. Ma non ratificare è l’unico modo per evitare che quei prestiti abbiano certe pericolose caratteristiche. Anzitutto, l’argomento che “il Mes è fuori contesto” è relativo proprio alla sua ratifica, non all’eventuale utilizzo. Monti non può non sapere (infatti, lo sa ma omette di dirlo) che quella ratifica interviene – tra tante modifiche – proprio sulle condizioni di accesso alla linea di credito precauzionale, quella con le condizioni meno gravose. I parametri da sodisfare per accedere a quella linea, la rendono di fatto inutilizzabile, perché l’Italia (ma non solo) non riuscirebbe a soddisfarli. Inoltre quei parametri contengono il riferimento al disavanzo strutturale di bilancio, una misura destinata a scomparire dalle regole di governo economico dell’eurozona. Quindi, in caso di eventuale utilizzo, proprio le modifiche contenute nella riforma da ratificare, ci costringerebbero ad utilizzare solo la linea di credito a condizioni rafforzata. Quella che prevede il programma di aggiustamento macroeconomico che paesi come Portogallo e Grecia conoscono bene. I lusitani sono stati costretti a sottoscrivere ben 1993 impegni in aree che spaziano da imposte e tasse a struttura della pubblica amministrazione, alla regolamentazione del settore finanziario, alle politiche del lavoro e della concorrenza.

Tutto minuziosamente normato e controllato con missioni periodiche che continuano ancora oggi.

È questo che si vuole per il nostro Paese? Indebitarci per qualche decina di miliardi ad un tasso che è solo nominalmente inferiore a quello di un Btp di pari durata, ma che tenendo conto di tutti i costi accessori e le condizioni, potrebbe rivelarsi ben superiore? Qual è il costo della libertà dalle imposizioni del creditore?

È proprio per evitare quelle imposizioni che ratifica ed eventuale utilizzo sono intimamente connessi, perché ratificare sarebbe equivalente ad accettare la delibera di un mutuo la cui eventuale successiva erogazione sarà soggetta a regole estremamente penalizzanti contenute proprio nella delibera. È vero che teoricamente non ci sarebbe obbligo di stipula di quel mutuo ma, qualora accadesse, le regole sarebbero quelle. Allora bisogna opporsi alla ratifica sia per i suoi intrinseci difetti e sia per gli effetti nefasti che il testo riformato produrrebbe nella “situazione disperata” (parole di Monti) in cui l’Italia fosse costretta a richiedere un prestito.

Non ci nascondiamo le difficoltà di una posizione negoziale su cui l’Italia appare isolata. Allo stesso tempo però dobbiamo evidenziare che è una delle poche volte che ci presentiamo in Europa avendo del potere negoziale proprio mentre sono in discussione dossier importanti come quello della riforma del Patto di Stabilità. Quella ratifica potrebbe essere l’arma negoziale, pagata a caro prezzo, per ottenere decisive contropartite sul Patto di Stabilità.

In conclusione, legarsi all’albero della nave (non ratificare) non appare una mossa esagerata, perché sappiamo bene che serve ad evitare un canto che prima ammalia e poi ti fa naufragare sugli scogli. Perché Monti dimentica di aggiungere che chi ha ascoltato le sirene si ritrova poi ridotto ad “un mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che raggrinza” (Omero, Odissea, XII, 39-46).

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