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Tunisia

Monti, Ceriani e le fissazioni fiscaliste

L'ex sottosegretario all'Economia nel governo Monti, Gianfranco Polillo, analizza l'articolo di Mario Monti e Vieri Ceriani (sottosegretario all'Economia nello stesso governo) pubblicato sul Corriere della Sera

Nel governo Monti, Vieri Ceriani benché avesse la “semplice” qualifica di sottosegretario era, in effetti, il vero ministro delle Finanze. La delega del presidente del Consiglio, sebbene mai formalizzata per iscritto, era piena. Il tutto giustificato dalla profonda conoscenza, da parte del sottosegretario, del sistema tributario italiano, uno di “quegli esperti della materia che padroneggiano i meccanismi propri del Fisco” come evocato nell’articolo a doppia firma (Vieri Ceriani e Mario Monti) su Il Corriere della sera, che rievoca quell’antico sodalizio. In cui, com’è giusto che sia, il nome di Ceriani appare per primo.

Che giudizio dare su quegli anni? Bisogna partire da qui per capire se la sola presenza di esperti sia sufficiente per condurre a termine quella riforma non solo auspicabile, ma necessaria. Conforta, in proposito, un vecchio aforisma di George Clemenceau secondo il quale, “la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari”. Nel 2012 e nel 2013 la pressione fiscale, in Italia, rispetto al 2011, secondo i dati della Banca d’Italia, aumentò di 2,1 punti di Pil, contro una crescita media dell’Eurozona dell’1,5 per cento. Tanto per avere un qualche altro punto di riferimento, fu il secondo maggiore incremento (a pari merito con la Francia) superato solo dalla Grecia (2,5 punti di Pil). In Germania l’aumento, nello stesso periodo fu dello 0,8 per cento del Pil.

Era giustificato? Fino ad un certo punto. La dimostrazione fu nell’andamento del gettito dell’Imu. Ai fini del contenimento del deficit, la somma necessaria era pari a 20 miliardi di euro. In questo non si può non concordare con Francesco Giavazzi. A consuntivo, si scoprì invece che il gettito era stato di 24 miliardi. Di cui all’incirca 4 miliardi, derivanti dalla tassazione sulla prima casa. Nascerà allora quel tormentone, volto alla sua eliminazione, che si trascinerà fino al governo Renzi. Con onestà intellettuale i due autori riconoscono che “l’anticipo dell’Imu e la maggiorazione delle rendite catastali non furono dettati esclusivamente da motivi di gettito e di risanamento dei conti pubblici”. Insomma: la casa stava bruciando, ma ci si preoccupava dei danni alla tappezzeria.

Sta il fatto che, in quegli anni (2012 e ’13), anche se non certo a causa della sola politica finanziaria, l’Italia sperimentò una caduta del Pil ben maggiore di quella dell’Eurozona: 3,9 contro l’1,1 per cento del Pil. Ma scorporando il dato italiano la perdita dell’Eurozona sarebbe stata anche minore. A dimostrazione del fatto che la conoscenza dei meccanismi fiscali è estremamente importante, ma che, al tempo stesso, non si può prescindere da una valutazione di più ampio respiro del quadro macroeconomico, prima di assumere qualsiasi decisione di carattere fiscale. Le quali, come ricordava un documento della Commissione europea di un paio d’anni fa, devono essere “valutate in base a quattro priorità: la promozione degli investimenti; il sostegno all’occupazione; la riduzione delle disuguaglianze; la garanzia dell’adempimento degli obblighi tributari”.

Da questo punto di vista non è molto comprensibile la chiamata in causa di Carlo Cottarelli, visto che nell’articolo criticato (“Tagliamo la giungla fiscale”, Repubblica, 1° ottobre) non c’è alcun riferimento alla “riforma Cosciani del 1972 – 73”, richiamata dai due autori. Riforma, quella di Cosciani-Visentini, alla quale, invece, è il caso di fare riferimento, come del resto ha fatto Giavazzi (“I passaggi necessari sul fisco”, Il Corriere della sera, 1 giugno 2020) per sottolinearne le novità di metodo, rispetto ai cambiamenti che pure, da allora, sono intervenuti nella legislazione italiana e richiamati con puntiglio dai due autori.

Quale fu la diversità? Quella di aver tenuto conto delle tendenze effettive dello sviluppo economico complessivo e, quindi, nell’aver modulato, almeno per l’Irpef, un sistema di riscossione destinato ad essere coerente con quel presupposto. Allora si riteneva, non senza ragione, che il modello fordista fosse non solo quello prevalente, ma che lo sviluppo economico sarebbe andato di pari passo con la crescita organizzativa dei singoli operatori. Per cui sarebbe stato sufficiente prevedere il “sostituto d’imposta”, vale a dire il prelievo fiscale intermediato dal datore di lavoro, per avere certezze nella riscossione e progressiva riduzione dell’area di evasione fiscale. Si pensava, infatti, che con il passare del tempo sarebbe stata questa la “forma prevalente” dell’organizzazione sociale, guardando a quello che era già intervenuto nei Paesi più avanzati rispetto all’Italia.

Le forme, per così dire, precapitalistiche – la piccola bottega, l’artigiano, ecc. – sarebbero rimaste, ma solo come elemento residuale, progressivamente riassorbito nella nuova organizzazione del mercato. Il che avrebbe comportato la progressiva riduzione dell’area dell’evasione fiscale. Diagnosi veritiera? In gran parte si. La maggiore evasione fiscale italiana, rispetto alla Francia o alla Germania, si spiega anche, se non soprattutto, con il maggior peso, in quei Paesi, delle forme strutturate dell’organizzazione produttiva. Non si dimentichi la dimensione che ha, ancora in Italia, la piccola o piccolissima impresa. Segno di una vecchia modernizzazione ancora incompiuta. Anche se tutto ciò apparteneva alla logica del ‘900.

Quella del “terzo millennio” è ben diversa in tutto il mondo sviluppato. Il modello fordista resiste, me è sempre più insidiato da una società “liquida”, che rifugge dalle forme organizzative più complesse.

Difficile dire cosa ci riserva il futuro. Certo è, invece, che il modello “Cosciani-Visentini” ha già perso gran parte della sua dimensione universalista. Riflette, in altre parole, solo una parte, tendenzialmente decrescente, dell’organizzazione sociale. Al punto dall’aver già spinto Carlo Bonomi, presidente della Confindustria, a chiedere il superamento del “sostituto d’imposta”: arma non solo spuntata contro l’evasione fiscale, ma destinata a determinare quell’ingiustizia profonda tra chi non riesce a sfuggire dalle grinfie del fisco e chi, invece – una crescente moltitudine – se la ride beatamente.

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