Con la fine di marzo è scaduto il termine per aderire all’accertamento con adesione davanti all’Agenzia delle entrate che ha contestato a Meta un’omessa dichiarazione dell’Iva, con mancato pagamento della stessa nel periodo tra il 2015 e il ’21, per un totale di 877 milioni di euro.
VERSO LO SCONTRO IN AULA
Come era prevedibile il colosso dei social fondato e guidato da Mark Zuckerberg si appresta quindi a intavolare una battaglia fatta di carte bollate nel tentativo di ottenere una giurisprudenza favorevole, da far valere eventualmente anche nel resto d’Europa se fosse chiamato, con logiche simili, a saldare l’imposta sul valore aggiunto.
Nel frattempo, si legge sul Sole24Ore, sul fronte penale si profila una richiesta di rinvio a giudizio per i due “director” di Meta Platforms Ireland Limited, già Facebook Ireland Ltd, ossia la costola irlandese a cui materialmente, nelle indagini dei pm di Milano Giovanni Polizzi, Giovanna Cavalleri e Cristian Barilli e del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf milanese, è stata contestata la presunta maxi evasione fiscale.
Secondo le indagini della Gdf in collaborazione con l’Agenzia delle Entrate, infatti, Meta Platforms Ireland Limited, attraverso i due canali social, avrebbe offerto “servizi digitali agli utenti” italiani “in cambio dell’acquisizione e gestione per fini commerciali dei dati personali” di ciascuno e “delle informazioni inerenti relative alle interazioni sulle piattaforme”.
LA TESI ARDITA DEL FISCO CONTRO META
Per Fiamme gialle e magistratura requirente ci sarebbe stata una “permuta tra beni differenti” che deve essere tassata attraverso l’Iva. Invece, i rappresentanti di Meta, secondo le accuse, per “evadere l’imposta”, a loro giudizio non dovuta, non avrebbero presentato “le dichiarazioni relative” a sette anni.
Insomma, secondo la tesi tutta italiana gli iscritti gratuiti rappresentano comunque per i gestori una fonte di reddito, dal momento che gli internauti cedono i loro dati che vengono monetizzati dalle piattaforme con inserzioni pubblicitarie su misura.
QUANDO IL DATO E’ L’UTENTE
L’idea è ardita, ma è stata in realtà suggerita al Fisco proprio dalle piattaforme di Mark Zuckerberg ed Elon Musk quando hanno iniziato a predisporre abbonamenti a pagamento, mettendo nero su bianco che coloro che avessero voluto continuare a usufruire dei servizi in modo gratuito che avrebbero allora “pagato” coi propri dati.
Un escamotage cui le Big Tech Usa hanno fatto ricorso essenzialmente per non infrangere le norme europee – sempre più restrittive – sull’uso dei dati dei propri iscritti, ma che di fatto ha evidenziato un business model rimasto fino a quel momento nell’ombra. Potrebbe essere il classico sassolino che, ruzzolando, dà il via a smottamenti assai più importanti. Del resto subito dopo Meta è stata avviata l’indagine fiscale tutta italiana che ha portato la Procura di Milano a formulare anche nei confronti dell’ex management di X (ai tempi si chiamava Twitter) l’ipotesi di “dichiarazione infedele” bussando alla porta della società ora di Elon Musk per chiedere indietro 12,5 milioni di euro.