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Meta, ecco come la Procura di Milano sfida Bruxelles sull’Iva non pagata da Facebook

Tesi innovativa (già respinta anni fa dalla Commissione Ue) della Procura meneghina: se Meta guadagna con i dati, allora le iscrizioni a Facebook non sono gratuite e bisogna pagarci l'Iva (per quasi 1 miliardo). Fatti, numeri e approfondimenti

Mark Zuckerberg alla sbarra? La procura di Milano ha aperto un fascicolo su Meta Platforms Inc, il gruppo californiano che include i principali social del Web oltre naturalmente al programma di messaggistica istantanea che praticamente tutto il mondo occidentale ha installato sul proprio smartphone, contestandogli il mancato pagamento dell’Iva. Ma andiamo con ordine.

LA TESI ITALIANA

A cercare di inguaiare il gruppo di di Menlo Park, alle prese con le sfide lanciate, sempre sul fronte dei soci, dagli abbonamenti annunciati da Elon Musk, un presunto omesso versamento Iva per circa 870 milioni di euro. Bazzecole per una società in grado di fatturare (negli anni abbiamo capito come) circa 86 miliardi di dollari, mentre una enormità per lo Stato italiano.

Se interpretazioni e stime dei magistrati fossero corretti, insomma, quanto si contesta a Meta Platforms Ireland, sede irlandese del gruppo, avrà una eco non solo mediatica, ma anche economica. Nel dettaglio, il Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano imputa la mancata presentazione della dichiarazione dell’imposta sul valore aggiunto da parte del colosso dei social dal 2015 al 2021.

LE REGISTRAZIONI SAREBBERO “NON GRATUITE”

Ora, prima abbiamo sibillinamente detto che negli anni abbiamo scoperto il modello di business di Facebook. Chi ha seguito le deposizioni di Zuckerberg al Congresso ai tempi di Cambridge Analytica ricorderà che fu lo stesso Mark a spiegarle ai politici statunitensi. Ecco, in un certo senso tutto ciò si intreccia con l’inchiesta italiana, in quanto l’Iva non versata riguarderebbe l’iscrizione degli utenti sulle diverse piattaforme social.

META PAGHI L’IVA SUI DATI

Si obietterà che le registrazioni, al momento, sono totalmente gratuite: non è del tutto vero e appunto qui si torna alla deposizione del numero 1 di Meta. L’utente in realtà più o meno consapevolmente (questo non rileva e soprattutto non interessa alle Fiamme gialle) paga dazio coi propri dati personali che, dovrebbe essere ormai noto a tutti, vengono utilizzati in prima battuta dal social network, che ha uno dei maggiori database mondiali ma anche ceduti a terzi per operazioni di pubblicità sempre più accurata, realizzata da algoritmi di IA sulla base delle ricerche, delle condivisioni, dei like, dei commenti lasciati sui social.

Secondo quanto è stato divulgato, l’indagine, in origine un’istruttoria amministrativa, era stata avviata dai pm dell’European public prosecution office (Eppo) Giordano Baggio, Sergio Spadaro e dal vice procuratore europeo Danilo Ceccarelli che, in seguito, si sono spogliati della competenza del caso, ora assegnato a Giovanni Polizzi, Pm che fa parte dei sostituti procuratori del secondo dipartimento guidato, da poche settimane, dall’aggiunto Tiziana Siciliano.

Non è stato facile il lavoro dei militari che hanno dovuto anzitutto quantificare gli utenti italiani iscritti nei vari social network e media, disaggregando i dati italiani da quelli europei, per poi quantificare per ciascuno la creazione di valore apportata alle casse dell’azienda. Naturalmente in quei dati ci può essere di tutto: doppi profili, fake e bot che l’azienda di Menlo Park mai come in questo caso avrà interesse a fare emergere, dato che quegli utenti non portano soldi alle casse dell’azienda (tuttavia, ammetterlo significherebbe dare ragione alla tesi italiana).

LA REPLICA DEL COLOSSO USA

E infatti come riporta il Sole 24 Ore, Meta, che è assistita dall’avvocato Nicola Crispino, esperto in diritto tributario, ha fatto sapere attraverso un portavoce di prendere «sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo. Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva. Come sempre, siamo disposti a collaborare pienamente con le autorità rispetto ai nostri obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale».

IL PRECEDENTE DEL 2018

Sul punto – annota il quotidiano di Confindustria – già nel 2018 le autorità tedesche chiesero il parere del Comitato Iva presso la Commissione Ue per sapere se la fornitura di servizi elettronici senza corrispettivo da parte di fornitori di servizi It in cambio del diritto di utilizzare i dati dei propri clienti e la concessione da parte degli utenti al fornitore di servizi informatici all’uso di tali dati costituissero un’operazione imponibile ai fini Iva: la risposta fu che la fornitura di dati non è una prestazione di servizi imponibile.

E SE TUTTI CHIEDESSERO A META L’IVA?

Quel che è certo, è che se la tesi della Procura di Milano questa volta fosse accolta, anche alla luce delle dichiarazioni del numero 1 di Facebook sul modello di business della sua azienda rese al Congresso Usa, tutte le altre procure dei Ventisette si muoverebbero reclamando la propria fetta di torta…

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