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Mes, Sure, Bei, Eurobond: fatti, numeri e rischi

Tutti i dossier in cantiere in Europa tra intenzioni, potenza di fuoco, rischi e polemiche. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

Due sere fa è arrivato anche l’annuncio ufficiale del Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel a confermarci che il 23 aprile non si deciderà nulla di nuovo, rispetto a ciò che è stato già messo sul tavolo dei leader dall’Eurogruppo del 9 aprile: Mes e Sure a favore degli Stati e Bei a favore delle imprese. Dovrebbe poi probabilmente seguire una acrobazia verbale per fare cadere in piedi i governi — Francia, Italia e Spagna in testa — che insistono per “strumenti finanziari innovativi” per finanziare un consistente programma di investimenti per la ripresa, ma che sbatteranno contro il muro tedesco.

Il progetto di passare la palla alla Commissione per mettere a punto un immaginifico European Recovery Fund (ERF), significa far deflagrare solo le profonde divisioni all’interno della Commissione e del Consiglio Ue. Una tabella di marcia che rischia di trasformarsi in un Vietnam e che mette in luce tutte le difficoltà di contemperare i diversi interessi dei 27 Stati membri. Il presidente Michel ripone molte speranze nel Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2021-2027 e sulla sua riformulazione per tenere conto della nuova emergenza e della necessità di recupero dell’economia dell’Ue. Ma tutto ciò, pur costituendo già un terreno minato, viene solo dopo la risposta individuale degli Stati. La Ue ora ha ben poco da offrire.  Temi ripresi dal Financial Times che, citando le solite fonti ben informate (diplomatici di alto livello) si chiede come sia possibile trovare un accordo sul progetto spagnolo (eurobond per concedere contributi a fondo perduto agli Stati, dettagliato in seguito). Le divisioni sono profonde: come sarà raccolto il denaro? Come sarà distribuito? E, soprattutto, per quali finalità? Decise da chi?

Come sarà possibile che la relativamente povera Romania garantisca debiti che saranno poi usati per erogare sovvenzioni a Spagna o Italia? Pare che su questo punto, possa intervenire la proposta italiana che propone prestiti anziché contributi. Una via per condurre il nostro Paese sulla via del commissariamento ad opera dei creditori. Non abbiamo bisogno i prestiti, non avendo perso l’acceso ai mercati. Purtroppo è proprio questo l’anello debole: la Bce non vuole e non può svolgere il proprio ruolo di finanziatore del deficit pubblico senza limiti, come ha purtroppo fatto notare il governatore della Banca Centrale olandese Klan Knot, che richiede che il bilancio degli Stati faccia la propria parte.

Invece, riceveremo:

1) il prestito dei 37 miliardi dal Mes, infilandoci nel tunnel della stretta sorveglianza prevista dal relativo Trattato e rischiando l’assoggettamento ad un programma di aggiustamento appena si manifesti una minima deviazione dei nostri fondamentali economici. E con un debito/PIL proiettato al 160%, tale rischio appare concreto.

2) I prestiti del Sure sono ancora tutti da implementare. Ci sarà da costituire il fondo di garanzia di 25 miliardi, a cui contribuiremo in modo rilevante e, quando pronto, ci indebiteremo per circa 10/12 miliardi, il necessario per finanziare forse 1 mese di cassa integrazione.

3) Le garanzie della Bei, a cui pure contribuiremo, nel migliore dei casi potranno consistere in linee di credito per le nostre imprese pari a circa 15 miliardi, al netto del cofinanziamento nazionale. Complessivamente circa 65 miliardi di prestiti. Mentre si preannuncia una perdita secca pari ad almeno il 10% del PIL, circa 170 miliardi.

La spaccatura sul tema delle risorse finanziarie da dedicare al fondo per la ripresa corre tra i “frugal four” (Austria Danimarca, Olanda e Svezia, con la Germania alle spalle nel ruolo di poliziotto buono) e gli “amici della coesione”. Per il primo gruppo c’è spazio solo per prestiti, il secondo ambisce ad ottenere contributi a fondo perduto. Per Berlino, oltre al fondo Sure, non c’è spazio per “stregonerie finanziarie”.

Il progetto presentato dallo spagnolo Sanchez equivale a mettere le dita negli occhi al blocco nordico. L’idea di fare leva su una parte consistente delle risorse del Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), su cui peraltro il conflitto dura da mesi, al fine di far partire una emissione di eurobond e finanziare investimenti, rischia di fa riemergere la profonda linea di rottura che divide gli Stati membri.

Si tratta di emettere bond senza scadenza per 1000/1500 miliardi, ed il pagamento dei relativi interessi sarebbe garantito da nuove tasse stabilite a livello UE. L’aspetto interessante è che queste risorse dovrebbero poi essere concesse a fondo perduto agli Stati membri, seguendo una base di ripartizione che tenga conto della percentuale della popolazione colpita dal Covid-19, del calo del Pil e dell’aumento della disoccupazione.

Su questo punto si impone chiarezza. Già a fine 2011, un paper della Commissione evidenziò che l’emissione di bond con garanzia comune era possibile, a Trattati vigenti, solo utilizzando veicoli, come il Mes o anche il Sure, in cui la responsabilità degli Stati era limitata alla garanzia prestata o al capitale versato. Nessuna responsabilità solidale. E quando lunedì la Merkel ha mostrato un’apertura verso gli eurobond, ha subito aggiunto “nell’ambito consentito dai Trattati”, sottolineando proprio la rigida separazione delle responsabilità degli Stati. È facile immaginare la levata di scudi tedesca se, per ipotesi, l’Italia contribuisse per il 15% al fondo di garanzia ed al pagamento degli interessi sugli eurobond, ma fosse destinataria del 30% dei prestiti o delle sovvenzioni. Chi crede nella fattibilità del piano spagnolo, pur apprezzabile, o non conosce i Trattati o vuole solo indorare la pillola per farci accettare il Mes, l’unico disponibile, quello con le regole che ti mettono sotto programma al primo stormir di fronda. I Trattati sono informati alla competizione, non alla solidarietà.

Ed una drammatica prova della mancanza di solidarietà l’abbiamo avuta domenica in un tweet della Commissaria Ue alle riforme ed alla coesione, Elisa Ferreira che ribadiva che i 37 miliardi di fondi del CRII (Coronavirus Respond Investment Initiative), erano la mera riassegnazione di fondi di coesione nazionali disponibili, non era e non poteva essere una redistribuzione tra Stati membri.

Quei 37 miliardi furono annunciati dalla Presidente Ursula Von der Leyen lo scorso 13 marzo. Contributi a fondo perduto per attrezzature ospedalieri, respiratori, mascherine. Fu subito predisposta una task force (5 Commissari, tra cui Paolo Gentiloni) e il 26 marzo il Parlamento votò la misura, il 30 marzo il Consiglio UE adottò la decisione, infine il 1 aprile le somme erano disponibili. Ricordiamo che l’Italia il 27 marzo piangeva 9.134 morti, la Spagna 5.138, la Romania 26 e l’Ungheria solo 10.

Ma la ripartizione di quelle somme ha seguito le regole dei fondi di coesione, che ci vede regolarmente contributori netti: l’Italia riceverà solo 2,3 miliardi (0,1% del PIL) e l’Ungheria 5,6 miliardi (3,9% del PIL). La Romania 3 miliardi, la Slovacchia 2,5 miliardi. La Spagna, con metà dei nostri morti, riceverà 4,1 miliardi. Sono le regole del bilancio UE, che nemmeno il numero dei morti è riuscito a sovvertire. L’aspetto beffardo di tutta la vicenda, ben documentata in un paper pubblicato sabato scorso dal think tank berlinese ESI, è che fu presentata come un intervento “rapido e consistente” per fronteggiare l’emergenza sanitaria, per “salvare vite”, stando alle parole pronunciate il 13 marzo dal direttore generale della DG Bilancio, Gert Koopman. Inoltre, all’Italia veniva concesso di sfruttare 4,5 miliardi di fondi strutturali di sua pertinenza ma non ancora assegnati, che però richiedevano una pari somma di cofinanziamento nazionale.

Considerato che il 13 marzo l’Italia piangeva 1.266 vittime, la Spagna 133 e l’Ungheria nessuna, c’è da pensare che il solerte funzionario olandese abbia ritenuto le vite italiane meno meritevoli di quelle di qualsiasi altro Stato membro, al punto da destinare al nostro Paese solo il 6% dei 37 miliardi. Mentre avevamo per strada i camion dell’esercito carichi di bare. Il tutto sotto il naso del Commissario Gentiloni.

Ma vi è di più. Nella conferenza tecnica del 13 marzo, l’olandese ammise che si trattava di uno strumento che non allocava i fondi in modo ottimale e che uno strumento più mirato avrebbe richiesto troppo tempo. Per giustificare il fatto che qualsiasi tentativo di cambiare le regola sarebbe stato destinato all’insuccesso, mise a nudo il disastro del processo decisionale dell’Unione a 27: “se avessimo proposto di cambiare la ripartizione delle somme tra gli Stati membri, probabilmente saremmo stati qui anche l’anno prossimo”.

37 miliardi sono una somma consistente del bilancio Ue, a cui nel 2018 abbiamo contribuito per 7 miliardi netti (17 di versamenti contro 10 di incassi), quindi una loro diversa ripartizione avrebbe avuto un impatto significativo sul saldo del nostro rapporto con la Ue. Lo schema perdente è sempre quello: dal 2014 al 2020 abbiamo ricevuto fondi strutturali per il 2,5% del PIL, contro il 17% dell’Ungheria.

Ma, poiché quando si tocca il fondo si può sempre scavare, il 22 aprile la Commissione ha annunciato il CRII Plus. Si tratta di corrispondere agli Stati membri quote residue dei fondi di coesione a cui avevano già diritto, ma che non erano stati ancora allocati. Inoltre, viene concessa la massima flessibilità nel loro uso e nel trasferimento tra regioni e viene abolito l’obbligo di cofinanziamento nazionale per il 50%. Per il nostro Paese si tratta di circa 9 miliardi. Peccato che fossero somme a cui già avessimo diritto (peraltro finanziate con nostri contributi, la solita partita di giro in perdita) e che invece vengono pomposamente presentate come aiuti della Ue.

Angela Merkel, intervenuta nuovamente per affermare che la condivisione del debito “è la via sbagliata”, sa bene che mettere le mani in questo ginepraio sarebbe la fine della Ue.

A meno che il nostro Paese, il più colpito dalla crisi, non accetti il solito ruolo subalterno. La soluzione di pronto impiego che resta sul tavolo è il Mes, la cui unica condizione pare essere il vincolo di destinazione alle spese sanitarie, come ancora lunedì ci ha ricordato il Commissario Valdis Dombrovskis. Che però dimentica che quelle condizioni possono essere cambiate. E l’argomento che sia richiesta l’unanimità per l’approvazione di un programma di aggiustamento o per il suo inasprimento è una risibile foglia di fico.

Bastano le parole con cui lo scomparso Fabrizio Saccomanni raccontò il ricatto subìto nel 2013, pur di farci approvare il bail-in, con Schauble che agitava la minaccia della reazione dei mercati. Oppure lo spread fatto esplodere nel 2011, appena Giulio Tremonti si azzardò a dire che il contributo al fondo salva Stati andava ripartito diversamente rispetto alle richieste franco-tedesche.

Qualcuno ha memoria di un veto posto dall’Italia in sede europea? È una parola che non conosciamo e che pare non conoscere nemmeno il Presidente Giuseppe Conte che ha promesso di “impegnarsi non solo per il bene del mio Paese ma per il bene dell’Europa intera” e, di fronte alla domanda secca “veto sì o no”, ha pavidamente risposto “lascio a lei l’interpretazione”.

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