Sul Corriere della Sera Lucrezia Reichlin, una economista molto autorevole, propone una nuova versione del “ce lo chiede l’Europa” in cui fa rientrare anche la richiesta del prestito al Mes.
La Bce può fare quel che sta facendo, dice Reichlin, perché esiste un consenso politico, lo stesso che è stato necessario per consentire a Draghi di pronunciare il whatever it takes. La Bce sta di fatto finanziando gli Stati – cosa esplicitamente vietata dal suo statuto – e per di più non rispetta nemmeno la proporzione stabilita (secondo la capital key, ossia il peso relativo di ciascun paese nel suo capitale): infatti, per esempio, compra più titoli italiani di quanto sarebbe previsto. Eppure né il Consiglio, né la Commissione la richiamano all’ordine. Questo accade – afferma l’economista – appunto perché si è raggiunto un consenso politico su quanto è necessario per affrontare la crisi.
Ma il consenso, sostiene Reichlin, si è formato attorno a un complesso di strumenti: Recovery, bilancio, e anche il Mes e il Sure (il fondo contro la disoccupazione). Ciò significa che bisogna usarli tutti, altrimenti quel consenso potrebbe venire meno. Quindi l’Italia non faccia la schizzinosa con il Mes e la Spagna con il Recovery, perché altrimenti c’è il rischio che il “rubinetto” Bce si chiuda, perché nessuna banca centrale può attuare interventi illimitati se il consenso politico manca, come si è visto nel 2011 quando gli interventi non hanno funzionato perché in Europa non c’era accordo su cosa fare.
Ma quelli – le ha ricordato su Twitter Francesco Saraceno, altro economista – non hanno funzionato appunto perché mancava la dichiarazione che sarebbero stati “illimitati”, la sola cosa che scoraggia la speculazione dal mettersi contro una banca centrale. E’ questo un punto cruciale che a molti economisti e a qualche banchiere centrale – per non far nomi, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, per esempio – sembra sfuggire. Chi rifiuta di accettare questo concetto dimostra di non aver capito come funzionano i mercati finanziari: un rifiuto incomprensibile, dato che la storia ha fornito prove che dovrebbero aver convinto chi non sia accecato da un’ideologia. Si può ricordare ad esempio l’”accordo del Plaza” (dal nome dell’albergo di New York dove nel 1985 si svolse la riunione di ministri e banchieri centrali del G5), che mise fine all’apprezzamento del dollaro; la rovina dello Sme nel 1992, causata dal rifiuto della Bundesbank di proseguire gli interventi, violando il patto dell’accordo di cambio; l’ormai mitica frase di Draghi, che stroncò l’attacco ai debiti pubblici senza bisogno di impiegare un euro. E infine, storia di ieri, l’infelice dichiarazione di Christine Lagarde (“Non è compito della Bce occuparsi degli spread”) subito seguita da una bufera sui mercati, altrettanto repentinamente placatasi in seguito alla precipitosa retromarcia della presidente Bce.
Quello che più colpisce nella tesi di Reichlin, che i meccanismi europei li conosce bene, essendo stata tra l’altro direttrice della ricerca nella Bce, è comunque un altro aspetto: dovremmo richiedere il Mes non perché ci sia necessario o perché sia conveniente (come sottolineano gli altri sostenitori dell’adesione), ma “per disciplina”.
Meglio sarebbe dire “come atto di sottomissione”. Il Mes è nato nel 2012, formalmente per aiutare i paesi in crisi, ma, di fatto, è stato il prezzo pagato per avere il consenso tedesco al whatever it takes: chi chiede aiuto deve essere commissariato. Poi, se è un governo “amico” lo si tratta bene. Alla Spagna guidata dal conservatore Mariano Rajoi, che vi è ricorsa per i salvataggi bancari, non sono stati richiesti programmi particolari. Ma con la Grecia guidata dal “sinistro” Alexis Tsipras sappiamo com’è andata.
Abbiamo imparato da tempo che l’Europa è guidata da un potere di fatto, cioè da un nucleo di paesi raccolto intorno alla Germania. Alcuni per dipendenza economica, altri per vicinanza ideologica, con il caso particolare della Francia che tenta di dare l’illusione – in questo con l’aiuto di Berlino – di avere pari dignità e potere, ma è ormai da tempo solo il più importante dei sottoposti. Il guaio di questa situazione è che le idee tedesche in economia – orrore del debito anche se serve per investire, bassi consumi interni, crescita trainata solo dall’export – può magari funzionare per un solo paese, ma non per una unione di 27. Condanna molti dei paesi membri a una sostanziale stagnazione (quando va bene). E soprattutto non può pretendere che una fra le tre più importanti aree economiche del mondo cresca solo per l’export. E’ inevitabile che prima o poi questo provochi reazioni, e infatti con Trump le reazioni sono arrivate. La Cina lo ha capito: i suoi avanzi commerciali record sono ormai un ricordo, e ora punta sui consumi interni.
Facciamo un bilancio della guida tedesca, del suo modo di gestire le crisi, delle sue idee in economia. Il risultato è che gli squilibri tra paesi e all’interno di essi sono aumentati e la crescita dell’area è stata la più bassa del mondo. L’obiettivo di ridurre i debiti pubblici, considerato fondamentale, è clamorosamente fallito, quello di avere un’inflazione stabile ma moderatamente positiva lo stesso. I tagli alla spesa pubblica ora, con l’emergenza Covid, presentano il conto. In tutti i paesi si scatenano periodicamente vasti movimenti di protesta, e i partiti che hanno guidato la politica nell’ultimo ventennio nei casi migliori sono lontani dai loro massimi, nei peggiori sono crollati a livelli di irrilevanza o sono addirittura scomparsi. Sarà il caso di prendere atto di questi risultati?
Qualcuno dirà che infatti con questa crisi sono state fatte scelte nuove e importanti, come la sospensione del Patto di stabilità, il Recovery Fund che comprende una parte importante di sussidi (ma anche quelli, col tempo, li ripagheremo quasi del tutto), l’emissione di bond europei, l’azione della Bce. E’ vero, ma sono tutte decisioni presentate come eccezionali per rispondere a una situazione eccezionale, e già si sono levate voci che chiedono un ritorno alla “normalità” appena possibile. E’ vero, ma gli Stati stanno ferocemente litigando su aumenti del bilancio europeo dello zero-virgola. E’ vero, ma le riforme in cantiere – da quella del Patto di stabilità, a quelle per il completamento dell’unione bancaria, a quella dello stesso Mes – si muovono nella logica del passato, anzi inasprendola e aggiungendo errori di valutazione il cui esito sarebbe disastroso, almeno per alcuni paesi e prima di tutti il nostro.
Il Mes è la quintessenza di quella logica. Scrive Saraceno: “Il MES sanitario oggi non aiuta i paesi membri. In alcuni di essi avvelena i pozzi, distorce un’istituzione, il MES appunto, creata per altri scopi (la stabilità finanziaria). Mi sembra evidente che sia una mina vagante proprio per quel consenso politico che Reichlin difende. Quindi, proprio prendendo sul serio l’invito di Reichlin mi domando: per salvare il consenso politico europeo, non dovremmo noi economisti suggerire ai nostri dirigenti di abbandonare una volta per tutte il MES che nessuno vuole (e di cui nessuno tranne noi italiani parla)?”.
Ma non è tutto, perché Reichlin trascura di dire che non sono solo l’Italia e la Spagna a “mettere in pericolo” il consenso politico europeo. Sul Recovery anche il Portogallo ha già dichiarato che farà come la Spagna e si scommette che la Francia farà altrettanto. E quanto al Mes, visto che nessuno Stato (nessuno!) ha intenzione di chiederlo, dove starebbe il “consenso”? Forse Reichlin si riferisce all’invito all’Italia di Angela Merkel a prendere il prestito sanitario. (Cosa mai si arriva a vedere! Una leader tedesca che invita un paese a indebitarsi…). Ma allora diciamola in un altro modo: la Germania ha parlato, mica la vorremo contrariare? E’ quello il “consenso politico” che conta… Lasciamo perdere, allora, il discorso del “consenso sul pacchetto”, e chiamiamo le cose come stanno: si vuole che l’Italia sottoscriva il prestito Mes perché all’occorrenza questo strumento opaco e irresponsabile politicamente e giuridicamente possa commissariarla e imporre le sue ricette. All’occorrenza, cioè se questo governo o uno dei prossimi dovesse deviare da quello che il “consenso europeo” (cioè di Berlino….) ritiene giusto. E’ l’eterna logica del “vincolo esterno”: anche quello ha dato pessima prova, e merita un posto nella discarica delle politiche sbagliate che l’Italia e l’Europa perseguono da un trentennio.