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Mattarella neo sovranista e Bruxelles poco austera. Ecco le magie del Conte 2. Saranno vere? L’analisi di Liturri

Sono ormai alcuni giorni che pare essersi improvvisamente indebolito o addirittura rovesciato il dogma dominante dell’austerità di bilancio. Fuffa o realtà? L'analisi di Giuseppe Liturri

 

Sono ormai alcuni giorni che pare essersi improvvisamente indebolito o addirittura rovesciato il dogma dominante dell’austerità di bilancio.

Il Patto di Stabilità e Crescita (SGP), che fino al 3 luglio secondo la Commissione Ue era la stella polare che orientava qualsiasi scelta di politica economica e che obbligava paesi come l’Italia a ridurre costantemente il deficit strutturale di bilancio e far tendere il rapporto debito/Pil verso la soglia del 60%, pare essere non più così indiscutibile ed inviolabile.

Fino a quando tali regole erano contestate dal precedente governo venivano derubricate in modo caricaturale a dichiarazioni di pericolosi ed avventuristici teorici dell’uscita dall’euro nottetempo e, per tale motivo, prontamente respinte al mittente accompagnate dalla minaccia di procedura d’infrazione e, per fare buon peso, anche da qualche decina di punti di spread.

Ma sabato 7 settembre è sceso in campo il presidente della Repubblica che, in un messaggio per il forum Ambrosetti a Cernobbio, ha probabilmente fatto l’intervento finora di maggior peso politico del suo settennato. Ha infatti parlato di “un necessario riesame del Patto di Stabilità”.

Non sono parole che possono essere lasciate cadere nell’indifferenza. Si tratta, probabilmente, di un ultimo appello ai partner europei, finalizzato a consentire a questo governo ciò che è stato vietato al precedente. E questo, da solo, dovrebbe dare la misura della preoccupazione che aleggia sul Colle, dove sono consapevoli che un’ulteriore stretta fiscale come quella già prevista dalla Commissione (deficit/PIL al massimo pari al 1,8% nel 2020, contro il 2% del 2019) non consentirebbe di tenere più il Paese.

Preoccupazione legittima e finanche doverosa da parte del custode dell’unità nazionale.

C’è un solo, non secondario, dubbio. Appare tardivo. Infatti, lo scorso 3 luglio, la Commissione Ue raccomandando al Consiglio Europeo di non proporre la procedura d’infrazione per il nostro Paese, aggiungeva che il bilancio 2019 e, soprattutto, il bilancio 2020 sarebbero stati sotto attenta valutazione da parte della Commissione stessa, accertando il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita. Senza se e senza ma.

Perché non abbiamo ascoltato la voce del Presidente già il giorno stesso e non 66 giorni dopo? Soprattutto, quando è ormai chiaro che, nel frattempo, è saltato un governo proprio a causa di quelle rigide regole che hanno impedito anche la mera discussione di un sia pur minimo alleggerimento fiscale?

Ma quando sembrava che le magnifiche sorti e progressive della benevolenza della Commissione nei confronti del governo amico, sotto l’alto auspicio del Quirinale, potessero dispiegarsi nella loro pienezza, arriva l’intervista al presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno, rilasciata a La Repubblica, a rompere le uova nel paniere.

Il titolo in prima “L’Europa ci farà lo sconto” pur rivelandosi un capolavoro di sudditanza, pare dapprima confermare lo scenario fiabesco. Ma la fine dell’intervista è raggelante per chi non vede l’ora di ricevere la famosa “ricompensa”: dopo aver ricordato che “l’importante è lavorare all’interno delle norme, senza sfidarle”, Centeno manda in fumo i sogni del titolista (e non solo) dichiarando che ‘‘ci sono 19 democrazie con sentimenti forti sulle regole fiscali… non vedo però la volontà di renderle indulgenti e su questo dobbiamo essere chiari da subito, per evitare false aspettative e fraintendimenti’.

Come se non bastasse, in un’intervista alla Reuters apparsa domenica mattina, Centeno ribadisce gli stessi concetti: le regole UE non si sfidano ed un bilancio 2020 che sfidi tali regole potrebbe incontrare la sfiducia dei mercati e conseguenti maggiori interessi.

Parole pesanti come pietre per chi, con eccessiva leggerezza, da giorni canta le lodi della (nuova) Commissione e di un nuovo corso che esiste solo nella sua fantasia.

Ma, frenati i facili entusiasmi, la partita è solo agli inizi e la Commissione si troverà in qualche modo a dover trovare una soluzione per non lasciare naufragare il governo amico in un mare di tagli di spesa ed aumenti di tasse (via tagli di agevolazioni fiscali) e, al contempo, non suscitare una levata di scudi da parte degli altri Paesi.

Lo strumento c’è ed ha un nome oscuro: ‘output gap’ (distanza tra PIL effettivo e PIL potenziale).

L’aumentare di tale distanza, fa sì che a parità di deficit strutturale (che è l’obiettivo della Commissione) sia consentito un maggiore deficit nominale. E sapete che non ci sono due, dico due, stime del PIL potenziale identiche, tra Governo, Commissione, OCSE, FMI? Il trionfo delle regole astruse e discrezionali.

L’anno scorso, in modo errato a detta di molti esperti, la distanza tra PIL effettivo e PIL potenziale era praticamente nulla, e ci costrinse a ridurre le pretese di deficit nominale al 2,4%.

Quest’anno, poiché mi piace pensar male, scommettiamo che l’output gap miracolosamente aumenterà e potremo fare più deficit nominale? In fondo, basta ritoccare qualche formula nei modelli di previsione, ed il gioco è fatto.

D’altronde, in qualche modo dovrà pur arrivare questa ricompensa. O vogliamo lasciare inascoltato il ‘mayday-mayday’ del Presidente?

 

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