Non c’è niente nella manovra per le imprese che investono.
L’annunciato nuovo regime di tassazione agevolata IRES al 15% “del reddito corrispondente agli utili reinvestiti per l’acquisizione di beni materiali strumentali e per l’incremento dell’occupazione” si rivela alla prova dei fatti nulla più che un “gioco delle tre carte” con cui non vengono messe sul piatto risorse aggiuntive e viene resa più rigida e complicata per le imprese che investono la fruibilità delle risorse già stanziate.
I dubbi erano sorti già con il DEF che annunciava in contropartita la soppressione dell’ACE.
Le prime conferme erano arrivate dal Draft Budgetary Plan che evidenziava saldi finanziari in sostanziale parità tra il “dare” della nuova agevolazione e “l’avere” della mancata conferma di agevolazioni esistenti.
La conferma definitiva arriva dalle bozze della legge di bilancio dove si tocca con mano pure la rigidità e notevole complessità del nuovo meccanismo agevolativo fortemente voluto dal governo al posto dei “superammortamenti” (non prorogati dopo tre anni consecutivi di loro applicazione) e dell’ACE (abrogata a sette anni dalla sua introduzione).
Resistono invece gli “iperammortamenti” del piano “Industria 4.0”, ma vengono prorogati secondo la stucchevole logica “piccolo è meglio” che pervade un po’ tutta la manovra e più in generale la filosofia del governo. Gli “iperammortamenti” rimangono infatti previsti nella attuale maggiorazione piena del 150% del costo deducibile dell’investimento solo per gli investimenti fino a 2,5 milioni di euro, per poi ridursi al 100% per gli investimenti tra 2,5 e 10 milioni di euro, al 50% per gli investimenti tra 10 e 20 milioni di euro, fino ad azzerarsi per gli investimenti oltre 10 milioni di euro.
Un po’ come dire che più investì e meno ti agevolo.
Torniamo però al confronto “nuova agevolazione vs abbandono superammortamenti e ACE”.
Fino a quest’anno, con i “superammortamenti”, una impresa che avesse investito in beni strumentali nuovi avrebbe potuto fruire di uno sconto fiscale pari al 7,2% dell’investimento fatto (dato dal 24% di aliquota IRES sul 30% di incremento della deducibilità fiscale del costo sostenuto), recuperabile lungo l’arco temporale del periodo di ammortamento fiscale del bene.
Se poi questo investimento veniva finanziato con il reinvestimento di utili o anche con nuovi apporti dei soci che aumentavano il patrimonio netto, si aggiungeva il beneficio ACE pari a un ulteriore 0,36% annuo (dato dal 24% di aliquota IRES sull’1,5% dell’aumento di patrimonio netto) fino a quando permaneva l’aumento del patrimonio della società.
Se, dunque, per ipotesi, fino a quest’anno veniva fatto un investimento di 1 milione di euro acquistando un bene ammortizzabile in 5 anni, il risparmio fiscale recuperabile in questo arco di tempo era di 72.000 euro in caso di investimento finanziato con capitale di debito e da 72.000 fino a 90.000 euro in caso di investimento finanziato con accantonamento di utili o nuovi conferimenti dei soci (si arriva a 90.000 euro se l’aumento del patrimonio netto permane per tutto l’arco temporale considerato).
Con la nuova agevolazione che manda in soffitta superammortamenti e ACE, lo sconto fiscale a partire dal 2019 sarà parimenti di 90.000 euro (ossia il 9% rappresentato dalla riduzione dell’aliquota IRES dal 24% al 15% sulla quota di reddito agevolato corrispondente agli ammortamenti del periodo sui nuovi investimenti agevolati), ma per le imprese che investono cambiano significativamente sia i margini di manovra che di certezza di conseguirlo per intero.
I margini di manovra, perché, a differenza di adesso, se non ci sarà a monte un reinvestimento di utili nulla spetterà e quindi, in caso di piani di investimento finanziati con capitale di debito o con apporti dei soci, si perderà quanto meno quel 7,2% che i superammortamenti avrebbero assicurato.
I margini di certezza, perché la nuova agevolazione prevede ogni anno complessi calcoli volti a verificare la sussistenza di uno stock incrementale di investimenti rispetto a quello esistente al 31 dicembre 2018, quale presupposto e plafond massimo per poter fruire dell’agevolazione (quindi se si fanno nuovi investimenti, ma se ne dismettono altri, potrebbe non spettare almeno in parte il beneficio su uno o più anni del periodo di ammortamento), laddove invece i superammortamenti davano la certezza che discendeva dall’innegabile pregio della semplicità di una disciplina senza medie, stock incrementali o modalità di finanziamento: investivi 100 e, se il bene era agevolato, deducevi 130 e fine della storia.
Per altro, la notevole complessità della architettura della nuova disciplina la rende di difficile lettura al punto dall’aver indotto taluni interpreti a ritenere che i benefici che essa concederà saranno addirittura di dieci volte inferiori a quelli assicurati dai superammortamenti.
Pare in verità una lettura troppo pessimistica e che non trova conforto neppure nei saldi finanziari su cui la manovra si fonda (e che prevedono una sostanziale equivalenza finanziaria tra nuovo e vecchio), ma che conferma una volta di più le perplessità verso una operazione legislativa che “tanto dà, tanto toglie” dal punto di vista finanziario, complicando però non poco dal punto di vista applicativo la vita alle imprese che investono.
Al netto delle esigenze politiche di poter dire di aver fatto di più e meglio anche se non si stanno mettendo più risorse e si sta sostituendo un meccanismo molto semplice con uno molto complicato, la più “modesta” proroga dei superammortamenti sarebbe probabilmente la scelta migliore per le imprese che investono.