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Pandora Papers

Lo sapete che cosa ha combinato l’Olanda su web tax e fisco light?

L’articolo di Tino Oldani Tra quelli che in Europa pretendono di dare lezioni all’Italia, pur avendo la vergogna scritta in fronte, un posto di rilievo spetta all’Olanda. Un paese dove i capi di governo e i ministri, di destra o di sinistra non fa differenza, parlano di solidarietà solo nelle interviste, mentre sul piano pratico…

Tra quelli che in Europa pretendono di dare lezioni all’Italia, pur avendo la vergogna scritta in fronte, un posto di rilievo spetta all’Olanda. Un paese dove i capi di governo e i ministri, di destra o di sinistra non fa differenza, parlano di solidarietà solo nelle interviste, mentre sul piano pratico difendono con le unghie e con i denti i privilegi tipici di un paradiso fiscale. Un’ipocrisia che dura da anni, e ha trovato l’ennesima conferma nel voto contrario all’introduzione di una web tax europea espresso pochi giorni fa, nella riunione Ecofin dei 28 ministri finanziari Ue svoltasi in Bulgaria. Vertice in cui l’Olanda ha capeggiato un gruppo di paesi ostili a tassare come si deve le multinazionali del web, tra cui spiccano altri paradisi fiscali come Irlanda, Lussemburgo, Malta e Cipro, a cui si sono aggiunti Danimarca, Svezia e Finlandia.

Che l’Olanda sia un paradiso fiscale lo ha scritto a chiare lettere un recente rapporto Oxfam, che ha stilato la classifica mondiale di questi Paesi. Grazie a un punteggio elevato, dovuto all’enorme elusione fiscale di cui godono le multinazionali domiciliate, i Paesi Bassi risultano essere il primo paradiso fiscale in Europa e il terzo nel mondo, dietro Bermuda e Isole Cayman. In Europa, seguono Svizzera (quarto posto), Irlanda (sesto), Lussemburgo (settimo) e Cipro (decimo).

Alcuni di questi paesi, come il Lussemburgo, hanno giustificato il proprio diniego sostenendo che, di fronte alla politica dei dazi inaugurata da Donald Trump, non è il caso di lanciare provocazioni fiscali contro le multinazionali Usa del web. Anzi, per il Lussemburgo, «la web tax europea dovrebbe essere discussa e concordata con gli Usa». Tesi a dir poco ridicola, ma presa sul serio perfino dal commissario Ue alle Finanze, Pierre Moscovici, il quale ha tenuto a precisare che la web tax non è contro gli Usa, tantomeno una ritorsione alla minaccia di Trump di imporre dazi sull’importazione di acciaio, alluminio e automobili dall’Europa.

A dire il vero, la web tax europea è poca cosa. Presentata ufficialmente il 21 marzo scorso da Moscovici per conto della Commissione Ue, e sostenuta dai quattro maggiori paesi Ue (Germania, Francia, Italia e Spagna), prevede due fasi: una immediata, e una di lungo termine, tutta da definire. La prima fase prevede un’aliquota del 3% sul fatturato di aziende che nel mondo hanno ricavi per almeno 750 milioni (di cui 50 milioni in Europa), con un gettito ipotetico di 5 miliardi di euro l’anno, destinati direttamente ai paesi Ue in cui le multinazionali del web svolgono la loro attività, anche se non vi hanno una stabile organizzazione e residenza fiscale.

Secondo le stime della Commissione Ue, questa web tax non avrebbe alcuna incidenza sulle startup e sulle società più piccole del web, mentre colpirebbe 120-150 imprese digitali di livello mondiale, non solo americane, ma anche europee ed asiatiche. Ovvero quelle imprese che oggi, grazie al domicilio fiscale in paesi come l’Olanda, pagano una tassa media sui profitti tra l’8,5 e il 10,1%, mentre le altre società commerciali, con un domicilio fiscale normale, sono tassate più del doppio, dal 23,3 fino al 30%. Uno squilibrio tanto più ingiustificato se si considera che tra il 2008 e il 2016 il commercio europeo ha aumentato i propri guadagni di appena l’1%, mentre le cinque piattaforme di e-commerce al mondo hanno aumentato il fatturato del 32%.

Se mai ve ne fosse bisogno, le divisioni sulla web tax confermano una profonda e radicata mancanza di solidarietà all’interno dell’Unione europea. Se non si riesce a introdurre neppure una modesta quanto sacrosanta tassa sui giganti del web (Facebook, Amazon, Google, Airbnb, Alibaba, Netflix, Spotify), come possono illudersi Emmanuel Macron e Angela Merkel di varare le «riforme strutturali» dell’eurozona? Secondo la narrazione mainstream, l’Olanda è da sempre un alleato della Germania nelle politiche di austerità. Ma sulla web tax, l’Olanda ha preferito agire da paradiso fiscale, con egoismo, come fa da sempre. Un anno fa (23 marzo 2017), l’olandese Jeroem Dijesselbloem, socialdemocratico, all’epoca presidente dell’Eurogruppo, fece una sparata clamorosa contro i paesi dell’Europa del Sud, dicendo: «Sono solidale, ma non posso spendere tutti i miei soldi in alcol e donne, e poi chiedere sostegno». Parole offensive, che suscitarono la giusta indignazione dei politici italiani e spagnoli.

Sparito dalla scena Dijesselbloem, il cui partito è uscito dalle elezioni olandesi con le ossa rotte, crollando dal 19,1 al 5,7%, ora è il premier Mark Rutte (centrodestra) a recitare la parte del duro contro i Paesi dell’Europa del Sud, soprattutto contro quelli con alto debito, come l’Italia. Così, ecco la prima zampata: pur non avendo la sede per ospitarla, l’Olanda è riuscita a truccare le carte e, complice l’euroburocrazia, ha sottratto a Milano e all’Italia la sede dell’agenzia europea del farmaco Ema.

Subito dopo, ecco la seconda: l’Olanda si è messa a capo di un gruppo di otto paesi nordici (con Svezia, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania, Estonia e Lettonia) per dire no a qualsiasi ipotesi di riduzione dell’austerità economica in Europa. Una linea che Mark Rutte ha proclamato in un discorso ufficiale a Berlino il 7 marzo, per dire un secco «nein» alle riforme dell’eurozona proposte da Macron: no al bilancio comune Ue, no al ministro unico delle Finanze Ue, no all’Europa dei trasferimenti (cioè agli eurobond). Tre no dietro ai quali alcuni intravedono la sagoma del falco Wolfgang Schaeuble, che a Berlino non è più ministro delle Finanze, ma presidente del Parlamento, eppure riesce ancora a condizionare la politica dubbiosa della Merkel, considerata troppo indulgente non solo verso Macron, ma anche verso il Quantitative easing di Mario Draghi, e dunque verso l’Italia e il suo debito pubblico. Uno scenario dove l’Olanda fa due parti in commedia, con saccente ipocrisia: paradiso fiscale per le multinazionali, e cane da riporto per conto dei falchi di Berlino. Purtroppo, oggi l’Europa è questa.

(articolo pubblicato su Italia Oggi)

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