skip to Main Content

Bce

L’Europa, l’euro e l’Italia. Il discorso di Draghi commentato da Polillo

Il commento di Gianfranco Polillo   L’intervento di Mario Draghi, alla Scuola superiore di Sant’Anna di Pisa, in occasione del conferimento della laurea ad honoris, è soprattuto una grande lezione di storia, che non può essere ridotta, come pure è stato fatto, al semplice invito a contenere il deficit di bilancio. Intendiamoci: la stabilità finanziaria…

 

L’intervento di Mario Draghi, alla Scuola superiore di Sant’Anna di Pisa, in occasione del conferimento della laurea ad honoris, è soprattuto una grande lezione di storia, che non può essere ridotta, come pure è stato fatto, al semplice invito a contenere il deficit di bilancio. Intendiamoci: la stabilità finanziaria rimane un valore in sé. Il problema è come arrivarci, specie durante una fase recessiva. Durante la quale ogni ulteriore compressione, come avvenuta in Italia durante gli anni 2011 – 12, quando è mancato ogni apporto europeo, si risolve in un danno maggiore.

“In assenza di presidi adeguati a livello dell’area dell’euro – afferma con chiarezza il presidente della BCE, riferendosi all’Italia ed ai Paesi più divergenti rispetto alla media delle altre economie – i singoli paesi dell’unione monetaria possono essere esposti a dinamiche auto-avveranti nei mercati del debito sovrano. Ne può scaturire nelle fasi recessive l’innesco di politiche fiscali pro-cicliche, producendo così un aggravamento della dinamica del debito, come nel 2011-12”. Senza un sostegno esterno, in altre parole, il fardello della crisi assume un andamento a spirale che debilita definitivamente chi già era sofferente.

Il che non significa scaricare su altri le proprie responsabilità. All’Unione europea si può chiedere un aiuto nei momenti di difficoltà, ma non attribuire ad altri quei compiti che spettano alle forze politiche nazionali. Quelle riforme indispensabili che servono per afferrare il bandolo della modernità in un mondo che cambia rapidamente e che non aspetta chi, per colpa o semplice pigrizia, rimane indietro. Del resto inveire contro la globalizzazione, che pure reca in seno grandi contraddizioni, serve a poco. Di fronte alle grandi nuove potenze – dalla Cina all’India – che si stagliano all’orizzonte l’Europa rappresenta solo un piccolo presidio. Ha anch’essa cavalcato l’onda della globalizzazione, cercando di attenuarne le spinte più demolitrici, con misure che hanno cercato di controbilanciarne la potenza. Ma cosa sarebbe stato se un Paese, piccolo e mal messo come l’Italia, si fosse trovato isolato? Basti ripensare agli anni ‘70 o ‘80, per averne contezza. Quella progressiva attenuazione di ogni spinta propulsiva sul terreno dello sviluppo. Quella devastante inflazione o l’impetuosa crescita del suo debito pubblico. Le nuove generazioni chiamate a pagare le colpe dei padri per il loro adagiarsi su una più rilassante quotidianità.

Bisogna partire da questo dato per capire il rapporto complicato, ma necessario, tra lo Stato-Nazione, che ancora rimane, e l‘Entità sovranazionale. Se si ha coraggio in casa propria nel fare ciò che si deve fare, si ha anche la forza per cambiare una realtà che ci sovrasta. Ma se questo presupposto viene meno, non ci sono alternative. Pensare di riavviare il nastro e chiudersi nello splendido isolamento dell’exit è solo una sciocca illusione. Lo si può pensare rimuovendo completamente le brutte esperienze del passato, che comunque sono lì. Ma, soprattutto, ignorando i vincoli di interdipendenza, che sul piano tecnico – produttivo avviluppano tutte le economie europee.

L’esistenza di un mercato unico, nonostante i suoi limiti, ha prodotto mutamenti morfologici dai quali indietro non si può tornare. I mercati finanziari sono integrati. Pensare oggi a misure, come quelle degli anni ‘70, che limitassero i movimenti di capitali, non reggerebbero lo spazio di un mattino. Entrerebbero in netta collisione con l’esigenza primaria di approfondire ulteriormente questi legami, come barriera ai possibili shock esterni che, altrimenti, travolgerebbero le economie più deboli. Facendole crollare come fragili castelli di carta. Lo si è visto chiaramente – non possiamo fare a meno di aggiungere – nel caso della Turchia o di altri Paesi: componenti dei Brics.

Ma sul piano dell’economia reale la situazione non sarebbe poi così diversa. Oggi il cuore dell’attività produttiva si svolge all’interno di quelle “catene del valore”, che non conoscono confini nazionali. Le singoli componenti del prodotto finale battono bandiere diverse, che l’unicità della moneta ha progressivamente integrato. Recuperare una propria sovranità valutaria, con il ritorno ad un antico conio, avrebbe solo l’effetto di complicare enormemente la fluidità degli scambi, rendendo vana ogni ipotesi di possibile svalutazione monetaria. Diminuirebbero, infatti, i prezzi di alcuni prodotti intermedi, ottenuti in loco, ma aumenterebbe il prezzo di quelli importati. Ed alla fine redigere il relativo bilancio, per vedere se si è perso o guadagnato, sarebbe un’operazione non solo complicata. Ma continuamente esposta al variare delle possibili combinazioni.

Se questa strada è preclusa, non resta allora che battersi per un’Europa migliore. Meno burocratica, meno chiusa nella difesa degli equilibri post-crisi, più solidale e consapevole della necessità di garantire ancor di più quel grado di libertà e di solidarietà che fa parte del Dna della sua storia. Che comunque le ha permesso di chiudere i capitoli più dolorosi. Per realizzare simili obiettivi molte sono le cose da cambiare a partire dal completamento dell’Unione bancaria, per poi giungere ad una più inclusiva politica di sviluppo. Cose, che comunque implicano una maggiore condivisione del rischio tra tutti i partner, ma a condizione che nessuno se ne approfitti. Perché è questo il sospetto maggiore, che frena ogni slancio della possibile generosità. Pur necessaria.

Fredda analisi economica? Pura esortazione per gli addetti ai lavori? Il disegno che è sotteso a quel ragionare concreto è l’idea di “un’Europa unita, nella libertà, nella pace, nella democrazia, nella prosperità“. Queste le conclusioni di una “lezione”, non rivolta solo agli studenti. Sulle macerie della guerra nacque il grande progetto di un’Europa senza frontiere, che allora sembrava solo utopia. “Il tempo passato da allora avrebbe giustificato la razionalità di queste scelte”. Poi la grande crisi dello scorso decennio ne ha offuscato la dimensione. Al punto che “per tanti, i ricordi che ispirarono queste scelte appaiono lontani e irrilevanti, la loro razionalità“ pregiudicata. Mentre “nel resto del mondo il fascino di ricette e regimi illiberali si diffonde”. Ma proprio per questo “il nostro progetto europeo è oggi ancora più importante. È solo continuandone il progresso, liberando le energie individuali ma anche privilegiando l’equità sociale, che lo salveremo, attraverso le nostre democrazie, ma nell’unità di intenti”.

PERCHE’ L’UE DEVE AVERE PIU’ POTERI ANTI-CICLICI. IL DISCORSO INTEGRALE DI DRAGHI

Back To Top