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Le 4 lezioni dei dazi trumpiani per l’Europa

Non ci sarà riscatto per l’Europa senza la riattivazione del suo potenziale di crescita endogena, quel mercato comune che, prima di diventare una specie di istituto di correzione per paesi non abbastanza frugali era, per chi ancora se lo ricorda, la ragione per cui l’integrazione europea è nata. L'analisi di Filippo Mazzotti

In Europa “i policymakers hanno rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica: una basata sullo sfruttare la domanda estera ed esportare capitali con bassi livelli di salario. Ma questa costellazione non è più sostenibile… il rallentamento ha accresciuto la nostra dipendenza dal mercato Usa… ma la nuova amministrazione americana non sembra propensa ad agire come nostro compratore di ultima istanza”. Così Mario Draghi nel citatissimo discorso tenuto a Parigi nel dicembre scorso  con cui ha fatto letteralmente a pezzi la politica economica europea degli ultimi quindici anni.

Per chi avesse voluto sapere in anticipo come sarebbe andato a finire l’allora imminente scontro transatlantico sul commercio estero non c’era nient’altro da sapere che questo. Ed è la prima di almeno quattro lezioni emerse dall’esito, tuttora incerto, del vertice euroamericano del 28 luglio: la spettacolare crescita del surplus europeo nei confronti degli Stati Uniti è iniziata durante la risposta alla crisi finanziaria ed “è difficile sostenere che sia stata interamente accidentale”, dato che “le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari come mezzo per accrescere la competitività esterna”. Una circostanza valida soprattutto per i paesi del sud Europa, laddove il nord approfittava simultaneamente dei vantaggi del passaggio all’euro dalle monete nazionali, insieme ad una certa indifferenza rispetto alle regole sugli squilibri macroeconomici, che non sono solo quelli di finanza pubblica, allegramente ignorati per una decina di anni abbondanti.

Non precisamente un successo dovuto alle doti strutturali delle forze produttive europee, perciò. Draghi, infatti, cominciava il discorso spiegando che “produttività, redditi, consumi, investimenti sono stati strutturalmente deboli in Europa dall’inizio del millennio ed hanno preso una strada significativamente divergente dagli Usa”. E, si parva licet componere magnis, non parliamo neanche dell’innovazione tecnologica, potremmo aggiungere, malgrado qualche brillante eccezione settoriale, sbocciata non grazie bensì nonostante le politiche europee.

La seconda lezione è che non esisteva alcun fondato motivo per credere che il resto del mondo, ed in particolare quello avanzato, potesse accettare a tempo indefinito dall’Europa un comportamento più da paese in via di sviluppo che da continente, fino ad oggi, più ricco del mondo. Di Cina ne basta una. Ed infatti i colpi di tosse provenienti dall’altro lato dell’oceano sono cominciati ben prima dell’attuale mandato di Trump, ed anche del primo, appena un po’ meno aggressivo di questo. Aveva cominciato il secondo segretario al tesoro di Obama Jack Lew nel 2014 (“Pensiamo che più domanda interna e investimenti sarebbero una buona cosa (…) e continuiamo a credere che politiche che li promuovono sarebbero positive per la Germania e l’economia globale” disse a Berlino incontrando l’allora ministro tedesco Schauble), e proseguito il suo successore Steven Mnuchin quattro anni dopo (“Il FMI deve intervenire su questo tema notando costantemente quando i membri mantengono politiche macroeconomiche, valutarie e commerciali che determinano un vantaggio competitivo sleale o portano a una crescita squilibrata (…) esprimendosi in modo più deciso sulla questione degli squilibri esterni, anche fornendo raccomandazioni politiche chiare per i paesi con grandi avanzi, a sostegno di una crescita globale più equilibrata.”). Come la pensassero a Washington e dintorni era già noto, ed evidente. Trump di suo ci ha messo più che altro la stravaganza e la maleducazione.

La terza lezione è che un simile modello di sviluppo non rende più forti sul piano della politica estera ma molto più deboli perché consegna alle proprie controparti commerciali il coltello dalla parte del manico, e ce ne stiamo accorgendo. La Commissione si è presentata al negoziato dovendosi far carico le giuste preoccupazioni dei principali paesi manifatturieri, Italia e Germania in testa, impegnati a difendere le ragioni delle loro aziende. Serviva un accordo che evitasse ulteriori escalation, ed un accordo è stato fatto, alle condizioni di chi aveva meno da perdere se il tavolo fosse saltato, e non eravamo noi europei. Non a caso, a sostenere la linea dura c’erano paesi che quella forza manifatturiera esportatrice semplicemente non ce l’hanno.

Ci si può lamentare finché si vuole dei modi inurbani e sguaiati tenuti da Trump nel negoziato, ma rimane che se il nostro sistema produttivo non fosse stato messo nelle condizioni di dipendere in termini tanto impegnativi dalla domanda extraeuropea, il presidente americano non avrebbe avuto la forza, oltre che il motivo, di adottarli. Invece, mentre festeggiavamo i mirabolanti record di vendite dell’auto tedesca, la crescita della domanda del mercato interno, quella privata dei consumatori e quella pubblica, dalle infrastrutture alla sanità, era diventata una specie di male assoluto.

La quarta lezione, la più utile perché riguarda il che fare da adesso in poi, è che la soluzione difficilmente arriverà dall’andare in giro a “cercare altri sbocchi” fuori dall’Europa come si sostiene da qualche tempo, perché gli sbocchi, ovvero paesi diversi dagli Usa disposti ad accettare l’approccio europeo degli anni recenti a sfruttare la domanda degli altri e farci da compratori di ultima istanza, semplicemente non esistono.

Sarà un caso ma l’intervento di Draghi si intitolava “Europe: back to domestic growth”. Non ci sarà riscatto per l’Europa senza la riattivazione del suo potenziale di crescita endogena, quel mercato comune che, prima di diventare una specie di istituto di correzione per paesi non abbastanza frugali era, per chi ancora se lo ricorda, la ragione per cui l’integrazione europea è nata.

 

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