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Merkel Von Der Leyen Recovery Fund

Recovery Fund: fatti, numeri e bugie

Il Recovery Fund analizzato dall'editorialista Guido Salerno Aletta

(Estratto di un’analisi pubblicata sul settimanale Milano Finanza)

Affossando per l’ennesima volta la prospettiva di una mutualizzazione dei debiti degli Stati membri dell’Unione, che stavolta considerava quelli necessari per fronteggiare le conseguenze economiche e sociali dell’emergenza sanitaria denominandoli Emergency Bond, Pandemic Bond ovvero Recovery Bond, la prima proposta alternativa è stata avanzata insieme da Francia e Germania, prevedendo di istituire nel periodo 2021-2027 un “Recovery Fund” di 500 miliardi di euro: un programma straordinario, quindi una tantum, aggiuntivo rispetto alle iniziative già previste nel Quadro finanziario pluriennale della Unione riferito al medesimo periodo.

Il predetto Quadro finanziario, che ancora non è stato approvato secondo la procedura che richiede la unanimità dei 27 Paesi aderenti, prevede stanziamenti complessivi per 1.279 miliardi di euro a prezzi correnti, che equivalgono ad un contributo pari al 1,11% del Reddito nazionale lordo dell’Unione, da ripartire tra i 27 Stati membri. Nella ripartizione occorre ancora risolvere la questione della mancata partecipazione della Gran Bretagna al bilancio dell’Unione, che pesa all’incirca per 13 miliardi li euro l’anno: mancano entrate per 91 miliardi di euro, pari al 7% del totale. Qualcuno se ne dovrà far carico, se non si vuole tagliare di altrettanto gli impegni di spesa.

Nel conto del dare e dell’avere con l’Unione, l’Italia è da decenni contributrice netta: nel settennio 2012-2018 ha versato 34,7 miliardi di euro più di quanto non abbia ricevuto beneficiando dei programmi di spesa. Tralasciando la questione dei mancati contributi della Gran Bretagna, è presumibile che anche nel settennio 2021-2027 l’Italia rimarrà contributrice per una cifra analoga.

Per dimostrare di essere in grado di affrontare una situazione economica mai così grave, la Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen ha battuto un colpo, proponendo di elevare la dotazione proposta da Francia e Germania portandola a 750 miliardi di euro, aggiungendo 250 miliardi di prestiti (loan) da erogare agli Stati in difficoltà. Di conseguenza, mentre la copertura dei complessivi 750 miliardi di spesa veniva ripartita tra i 27 Paesi della Unione secondo la consueta chiave di contribuzione basata sul rispettivo pil, la allocazione delle erogazioni avrebbe tenuto conto di una serie di parametri (allocation keys), differenziando i Paesi in tre categorie, a seconda che avessero un basso ovvero un alto debito pro capite, oppure un alto reddito pro capite. L’Italia, rientrando nella seconda di queste categorie, avrebbe ricevuto risorse per 153 miliardi (il 20,4% del totale) rispetto a 96,3 miliardi di contributi (il 12,8% del totale, commisurato al pil), con un incasso netto a suo favore di 56,7 miliardi pari al 3,2% del pil. Quest’ultimo importo avrebbe rappresentato il beneficio della solidarietà europea. La ripartizione tra grant e loan sarebbe stata di 81,8 miliardi per i primi e di 71,2 miliardi per i secondi. Il saldo tra i contributi (96,3 miliardi) e le erogazioni a fondo perduto (81,8 miliardi) sarebbe stato dunque negativo per 14,5 miliardi: un contributo, questo sì a fondo perduto pagato dall’Italia. Un costo enorme per ottenere 71,2 miliardi di loan: nessun differenziale di interessi, infatti, tra i più alti tassi richiesti dal mercato e le migliori condizioni che sarebbero state offerte dalla Unione, avrebbe mai coperto questo importo. Tenendo poi conto del contributo netto al Quadro settennale 2021-2027, il passivo italiano nei confronti dell’Unione sarebbe lievitato a 49,2 miliardi di euro. E comunque, niente sarebbe cambiato anche se i loan a favore dell’Italia fossero arrivati a 90,9 miliardi, secondo le diverse stime tweettate dal Commissario europeo Paolo Gentiloni.

A Bruxelles, la Cancelliera Merkel ha smontato il progetto della von der Leyen, riportando le lancette all’indietro. “Sosteniamo la dote da 500 miliardi per tutta l’Europa”, ha affermato, intendendo soprattutto che si dovrà trattare solo grant. Niente loan: per i debiti, si dovrà far ricorso al Mes.

Ha prevalso la linea dei Paesi frugali: Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, la testuggine politica usata dalla Germania per contrastare le velleità di spesa dei Paesi mediterranei. Insieme a Gran Bretagna ed Irlanda, anche Danimarca, Olanda e Svezia hanno ampiamente risparmiato sui versamenti al bilancio europeo nel settennio 2014-2020 tutelandosi con i rebates: sono davvero frugali, ma con i soldi degli altri. Anche con quelli dell’Italia, che infatti contribuisce all’Unione in misura più che proporzionale rispetto al suo pil.

Le ambizioni della Presidente von der Leyen escono fortemente ridimensionate dalla Cancelliera Merkel, che ha ricondotto il Recovery Fund alla dimensione ed alla configurazione iniziale: non solo si torna alla dotazione di 500 miliardi di euro, ma il bilancio dell’Unione non andrà gravato in alcun modo da prestiti contratti sul mercato. La procedura di anticipazione della provvista per erogare i loan, che era stata ipotizzata nel Next Generation Ue con il loro rimborso da parte degli Stati beneficiari solo a partire dal 2028, era troppo pericolosa. Non solo derogava alla prescrizione del TFUE, secondo cui il bilancio della Unione è “in pareggio”, ma depotenziava il ruolo del Mes, fiore all’occhiello della strategia tedesca volta a condizionare severamente qualsiasi sostegno finanziario concesso dall’Unione agli Stati. L’articolo 136, comma 3, del Trattato, appositamente introdotto nel 2010, prevede infatti che: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.

Diversamente dai prestiti concessi dal Mes, che nella revisione non ancora approvata del proprio Statuto prevede verifiche puntuali della sostenibilità dei debiti per i Paesi che non rispettano i parametri del Fiscal Compact e quindi una loro eventuale ristrutturazione preliminare, i loan erogati attraverso il meccanismo previsto dal Next Generation UE non sarebbero stati assistiti da una altrettanto rigorosa condizionalità. La von der Leyen, assai ingenuamente, stava mettendo fuori uso lo schiacciasassi che la Germania ha costruito con tanta cura in questi anni, non solo per smarcarsi dalla ingombrante presenza americana nel Fmi, membro della Troika con la Commissione e la Bce, quanto per mettere direttamente sotto tutela i Paesi dell’Eurozona che non riescono a finanziarsi sul mercato.

Per l’Europa non c’è dunque nessun “Hamilton moment”: non solo non c’è in vista nessun debito comune, ferma rimanendo come negli Usa la assoluta responsabilità di ciascuno Stato per il proprio, ma non c’è neppure una svolta “rooseveltiana” nel senso che l’Unione provvederebbe con propri interventi diretti in luogo dei singoli Stati. Si conferma invece il meccanismo tradizionale che si fonda su una contribuzione al bilancio dell’Unione tendenzialmente proporzionale rispetto al pil, ovvero al comportamento concreto di ciascuno Stato membro (ad esempio, la plastic tax si baserebbe sulla quantità di prodotto non riciclato), e dall’altra su una distribuzione delle risorse legata a programmi “a gara” o che riflettono situazione oggettive, soprattutto di svantaggio economico e sociale.

Tot paghiamo, meno riceviamo: essendo già contributrice netta al bilancio europeo, e rimanendo tale anche nel prossimo settennio, all’Italia non serve un programma che peggiora ulteriormente il suo saldo finanziario nei confronti dell’Unione. Anche i prestiti previsti dalla Next Generation Ue sarebbero stati costosissimi per via del pesante squilibrio previsto tra i contributi comunque versati e le erogazioni ricevute a fondo perduto.

Comunque vada, anche nel caso di un programma ridotto a 500 miliardi di euro, dovremo contribuire al Fondo proporzionalmente al nostro pil. E se pure ci fosse nella distribuzione delle erogazioni una speciale considerazione per la maggior gravità della epidemia che ha colpito l’Italia, la complessità delle procedure europee rallenterebbe le spese in modo estenuante. Senza contare che questi grant saranno condizionati alla adozione di riforme strutturali, come avviene con i prestiti del Mes: questo è ciò che chiedono i Paesi frugali. Per l’Italia significa mettersi il cappio al collo da sola: pagheremmo per farci condizionare.

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