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Come riformare il Patto di Stabilità in Europa? Appoggiamo la proposta tedesca?

Perché si può concordare (parzialmente) con la visione del Patto di Stabilità "alla tedesca" dell'ex ministro dell'Economia, Tria. L'analisi di Giuseppe Liturri

Premessa essenziale: discutere della riforma del Patto di Stabilità è come discutere delle condizioni di un carcere. Si potranno solo fare dei distinguo sul comfort delle celle, sulla frequenza delle ore all’aria aperta, sulla permanenza nella sezione di massima sicurezza, sui permessi premio e su altri dettagli della reclusione. Ma sempre di reclusione si tratta.

Lo stesso accade per il Patto di Stabilità. Un insieme di regole concepite nel 1997 ed aggiornate ed ampliate nel 2011/2012 in occasione della crisi dei debiti sovrani che, da allora, ha generato un unico risultato: crescita asfittica per il nostro Paese e, quando è arrivato il lockdown per la pandemia, rapida disapplicazione. Insomma non ha generato né Stabilità, né Crescita.

Tuttavia, obtorto collo – perché noi vorremmo uscire dal carcere, non discutere delle condizioni di permanenza – dobbiamo seguire il dibattito in corso che promette di diventare decisivo per l’andamento dell’economia del nostro Paese nei prossimi anni.

Così come purtroppo lo è stato per gli ultimi dieci.

“Perché il documento della Germania può convenire all’Italia” è il titolo dell’intervento sul Sole 24 Ore del professor Giovanni Tria  – ministro dell’economia nel governo Conte 1 – che ha espresso una posizione originale che farà discutere, su cui è anche possibile (parzialmente) concordare.

Tria commento il “non paper” (in altre parole, uno scritto troppo breve per essere considerato un “paper”, poco più di una dichiarazione di principio) di tre pagine rilasciato dal governo tedesco a proposito della proposta della Commissione sul tavolo dallo scorso novembre.

Tria è sorprendentemente d’accordo con i tedeschi, con motivazioni non banali, probabilmente dettate anche dai suoi 14 mesi in prima linea a negoziare con le istituzioni europee sui temi economici.

In primo luogo, concorda con i tedeschi quando affermano che il percorso di riduzione del rapporto debito/PIL, negoziato con la Commissione, non può basarsi sull’analisi di sostenibilità del debito.

Questa analisi (DSA) crea ed accentua infatti una segmentazione del mercato dei titoli pubblici degli Stati membri molto pericolosa. Si apre la strada a valutazioni del rischio “molto sensibili alle assunzioni che la determinano”. Tali valutazioni, “soprattutto se condotte ufficialmente, possono essere sempre interpretate male dai mercati e sono suscettibili di generare instabilità finanziaria”.

Insomma, una miccia accesa nella polveriera dei mercati. Parole pesanti come macigni, soprattutto se si considera che la DSA è anche uno degli elementi introdotti dal Mes riformato in attesa di ratifica.

Ma Tria non si ferma qua. Proprio perché rifugge dalla trattatativa “opaca e indeterminata”, abbraccia la proposta tedesca di “criteri quantitativi, chiari, verificabili e uguali per tutti”. La sua preoccupazione è che “se le regole non sono chiare, non è detto che la loro applicazione rispetterà sempre una corretta neutralità politica”. Qui sembra proprio che in Tria sia ancora vivo il ricordo di quei mesi dell’autunno 2018, quando la sua legge di bilancio venne tenuta a bagnomaria per qualche settimana dalla Commissione che ogni giorno agitava il ricatto dello spread. In quei giorni la “neutralità politica” era merce rara.

Tria non sembra più di tanto spaventato dai parametri quantitativi richiesti dalla Germania. Non si ritiene sia un problema la riduzione del debito/PIL di almeno 1 punto percentuale all’anno. Né lo spaventa la regola della riduzione della spesa (la crescita deve inferiore a quella del PIL potenziale). Cosa includere nella spesa (investimenti fuori?) è materia di negoziato, su cui l’Italia può e deve impegnarsi.

Tutto, pur di non finire nella trappola di piani “concordati” (con la pericolosità insita in tale definizione) ma rigidi, che a Tria ricordano tanto il PNRR. E tanto basti.

Di uscire dal carcere non se ne parla.

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