Nel novembre 2003, un giornalista del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza pose una domanda alla portavoce dell’allora commissario europeo al Commercio, Pascal Lamy: cosa sarebbe successo all’industria tessile polacca quando l’Unione Europea avrebbe eliminato le quote sulle importazioni dalla Cina, poco più di un anno dopo? “Non dovete preoccuparvi”, rispose la portavoce. “Concentratevi sulla qualità, sui prodotti di nicchia”. In altre parole: su quei prodotti che paesi come la Cina non avevano le competenze per realizzare. La portavoce citò come esempio i guanti per astronauti della NASA, cuciti a mano dagli operai tessili europei.
Due decenni dopo, questa visione ottimistica dell’economia globalizzata appare ancora più ingenua di allora. La Cina ha conquistato un mercato globale dopo l’altro. Il settore tessile, come nel 2003, oggi è un esempio lampante di questa egemonia industriale mondiale. Il primo ottobre, il gruppo cinese di fast fashion ultra-rapida Shein ha annunciato l’apertura dei suoi primi negozi permanenti nella patria della “haute couture”. Sei grandi magazzini operanti sotto il marchio “Galeries Lafayette”, oltre allo storico BHV Marais in Rue de Rivoli, di fronte all’Hôtel de Ville di Parigi, ospiteranno a breve negozi Shein.
Un’ondata di proteste ha attraversato la Francia — che peraltro non manca già di mobilitazioni sociali. Le Galeries Lafayette originali a Parigi, che non hanno alcun controllo sui sei centri commerciali che operano con il loro marchio, hanno protestato contro un modello di business che “contraddice la nostra offerta e i nostri valori”.
Questo episodio illustra una tendenza economica globale che colpisce duramente l’Unione europea. Negli anni successivi alla pandemia, la Cina ha accumulato un eccesso di capacità produttiva in praticamente tutti i settori industriali, saturando completamente il proprio mercato interno. In parole povere: neppure 1,5 miliardi di cinesi, nonostante l’aumento rapido della ricchezza personale, possono permettersi di assorbire tutti i vestiti, le auto elettriche, gli elettrodomestici e i pannelli fotovoltaici prodotti da un’industria surriscaldata.
Il tono più duro degli Stati Uniti nei confronti della Cina dopo il ritorno del presidente Donald Trump in gennaio ha rafforzato questo fenomeno. Gli USA, per anni principale acquirente dei beni industriali e di consumo cinesi, hanno reso tali importazioni molto meno redditizie. Trump ha minacciato per un breve periodo dazi fino al 145 per cento, ma Pechino ha risposto annunciando tariffe del 125 per cento sui beni americani. Per ora entrambe le parti hanno fatto marcia indietro. Resta da vedere se raggiungeranno un accordo amichevole.
Le aziende cinesi cercano di conseguenza nuovi mercati su cui riversare la loro sovracapacità produttiva. E questo ci riporta alla Francia e ai futuri negozi Shein. Le esportazioni tessili cinesi verso l’Ue sono aumentate del 20 per cento sia in volume sia in valore nella prima metà di quest’anno rispetto ai primi sei mesi del 2024. L’accelerazione c’è stata dopo il “Libration day” di Trump: l’annuncio il 2 aprile di dazi esorbitanti verso il resto del mondo.
Di fronte a una crescente opposizione politica e sociale contro i suoi capi d’abbigliamento a basso costo — spesso prodotti in condizioni simili alla schiavitù e in violazione delle norme ambientali e sanitarie europee — Shein (il cui principale lobbista in Francia è, per inciso, Christophe Castaner, ex ministro dell’Interno ed ex capo del partito del presidente Emmanuel Macron) cerca di darsi un’aura di rispettabilità.
Ma, come se non bastasse, ieri Pechino ha stretto ulteriormente i bulloni dell’economia globale nel punto forse più sensibile. Il Ministero del Commercio ha annunciato severi controlli all’esportazione di minerali critici e magneti contenenti terre rare. L’obiettivo è evidente: il regime di Pechino vuole mostrare agli Stati Uniti, in vista dell’incontro tra Donald Trump e Xi Jinping previsto per il prossimo mese, chi comanda davvero nel mondo.
L’Europa è una vittima collaterale di questo braccio di ferro tra superpotenze. È travolta dalla sovracapacità cinese e dalla diversione dei prodotti a basso costo un tempo destinati al mercato americano. Allo stesso tempo, l’Ue non riesce a sviluppare le proprie tecnologie avanzate a causa della quasi totale dipendenza dai minerali critici cinesi.
Il problema europeo con la sovrapproduzione cinese di acciaio è particolarmente allarmante. “L’industria siderurgica dell’Ue è attualmente sottoposta a una pressione considerevole a causa di livelli insostenibili di sovracapacità globale, attualmente oltre cinque volte il consumo annuo di acciaio dell’Ue”, ha dichiarato martedì la Commissione europea annunciando nuove misure tariffarie. La Cina non è l’unica responsabile di questo eccesso di acciaio, ma è la principale.
La Commissione ha quindi proposto di ridurre la quota annua totale di importazioni di acciaio esenti da dazi del 47 per cento, portandola a 18,3 milioni di tonnellate. Allo stesso tempo, ha raddoppiato il dazio sull’acciaio importato oltre questa quota, portandolo al 50 per cento. È l’equivalente della tariffa sull’acciaio introdotta da Trump quest’anno.
L’industria siderurgica europea è la terza più grande al mondo. Dà lavoro a circa 300.000 persone direttamente e ad altre 2,5 milioni indirettamente, ricorda la Commissione. L’acciaio è prodotto in quasi tutti gli Stati membri. Il settore è in crisi da anni: dal 2007 sono stati persi 65 milioni di tonnellate di capacità produttiva e circa 100.000 posti di lavoro. Nel 2024 gli impianti siderurgici europei operavano in media al 67 per cento della capacità; l’80 per cento è considerata la soglia di equilibrio economico, avverte la Commissione.
Ma l’acciaio, come altre materie prime, oggi ha un valore strategico molto maggiore rispetto a due o tre decenni fa, in piena globalizzazione. L’Ue ha tardivamente riconosciuto la necessità di ridurre la sua dipendenza strategica da paesi terzi — in particolare da quelli con agende politiche in contrasto con il suo modello democratico e di società aperta.
Lo stesso problema si riscontra nel settore delle auto elettriche e del fotovoltaico. In Cina ci sono circa 120 produttori di veicoli elettrici. Quasi nessuno è redditizio. Questo è dovuto alla politica di produzione di massa fortemente sovvenzionata dal governo centrale e dalle province. L’Ue ha imposto dazi punitivi ai principali produttori lo scorso anno. Questo ha rallentato leggermente le importazioni dalla Cina, ma non in modo significativo.
Ancora più evidente è la sovracapacità industriale cinese nel fotovoltaico. Secondo Bloomberg, attualmente esistono 300 produttori, che controllano l’80 per cento del mercato mondiale. Solo nel 2023 hanno prodotto circa 800 gigawatt di pannelli solari. La domanda globale è stata di 450 gigawatt. Oggi i pannelli costano in media un quindicesimo (!) di quanto costavano dieci anni fa.
La conseguenza logica di tutto ciò è che lo scorso anno l’industria fotovoltaica cinese ha registrato perdite per circa 52 miliardi di euro. Dal 2024, in questo settore sono stati persi quasi 90.000 posti di lavoro. E questo ci porta a un aspetto particolarmente delicato della politica industriale cinese: l’altissimo tasso di disoccupazione giovanile. Ad agosto di quest’anno ha raggiunto il 18,9 per cento, un record da quando nel 2023 è cambiato il metodo di calcolo.
La Cina tuttavia non raffredderà la sua industria surriscaldata come le chiede di fare il resto del mondo (il presidente francese, Emmanuel Macron, ha dichiarato che intende utilizzare la presidenza francese del G7 nel 2026 per affrontare con Pechino la questione degli “squilibri globali” — se sarà ancora al potere). Milioni di giovani cinesi sono inquieti e sempre più insoddisfatti della mancanza di lavori ben retribuiti e del rallentamento della crescita del tenore di vita. Xi, fedele alla sua ortodossia maoista, non tollera il dissenso. Riuscirà una Grande Muraglia Doganale europea a fermare l’ondata di importazioni cinesi? Cucire guanti per la NASA di certo non è —se mai lo è stato — una strategia industriale sostenibile.