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Eni, Stellantis, Brembo e non solo: tutte le opportunità del Canada per le aziende italiane

L’Italia può puntare sui progetti infrastrutturali di cui ha bisogno il Canada, sia nel fossile che nel rinnovabile, oltre che sul settore dei macchinari. Terza parte dell'approfondimento di Gian Marco Litrico.

Enel Green Power, per esempio, gestisce già quattro impianti con una capacità totale di 0,4 GW, e in particolare i parchi eolici Castle Rock Ridge I e II e Riverview in Alberta, la Provincia canadese che più di tutte vive di oil&gas, generando energia sufficiente per alimentare oltre 27.000 famiglie all’anno.

L’ENI, che è un player globale non solo nell’oil&gas, ma anche nelle rinnovabili e nelle tecnologie per la transizione energetica (idrogeno verde, soluzioni per la cattura del carbonio, biocarburanti avanzati), può dire la sua, anche se dovrà vedersela (o creare JV) con la francese Total Energies, l’anglo-olandese Shell, la britannica BP e la norvegese Equinor. Sempre l’ENI può  competere con la tedesca BASF nella leadership nella green energy, usando la colza e altre materie prime canadesi nelle sue raffinerie di biocarburanti.

Ansaldo Energy lavora già con Hydro-Québec e Ontario Power e può offrire turbine a gas, soluzioni per centrali elettriche a ciclo combinato, tecnologie per le energie rinnovabili e la stabilizzazione della rete elettrica.

Anche Snam ha credenziali di tutto rispetto per  convogliare in Europa, attraverso l’Italia, l’idrogeno proveniente dalle rinnovabili canadesi, per non parlare di Danieli e Tenova, leader nella decarbonizzazione della produzione dell’acciaio grazie alla tecnologia Energiron H2.

Spazi importanti esistono anche in materia di minerali critici, ma occorre agire in fretta: il governo canadese ha già firmato accordi con aziende europee come Mercedes-Benz e Volkswagen per garantire la fornitura di litio per la produzione di batterie in Europa.  Stellantis e Ferrari potrebbero far leva sulla loro posizione competitiva in Canada per cercare di replicare la strategia tedesca.

L’Italia, insomma, può puntare sui progetti infrastrutturali di cui ha bisogno il Canada, dopo decenni di immobilismo, sia nel fossile che nel rinnovabile, ma occorre trovare il giusto equilibrio tra il rientro di investimenti a lungo termine in un contesto di ineluttabile transizione verso le rinnovabili, e la realtà di una dipendenza dal fossile che potrebbe durare, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, ancora per un altro cinquantennio, in un settore in cui bisogna fare sistema non a livello di Paese, ma a livello globale, perché nessuno ha le spalle abbastanza larghe per fare da solo.

Un altro settore strategico è quello dei macchinari: il 4,2% delle importazioni canadesi arriva dall’Italia, per un valore di 850 milioni di euro all’anno. Uno dei primi nomi che vengono in mente è quello di Comau, leader globale nelle soluzioni di automazione industriale, robotica e produzione digitale, parte di Stellantis. In Canada fornisce linee di assemblaggio automatizzate per l’automotive e l’aerospaziale, oltre al segmento in crescita della produzione di veicoli elettrici e batterie.

Il settore delle macchine per la lavorazione e l’imballaggio degli alimenti (dove l’Italia è il secondo esportatore mondiale, dopo la Germania) potrebbe crescere sulla spinta dei maggiori investimenti di USA e Canada nella lavorazione locale degli alimenti, nel caso una guerra commerciale prolungata mettesse a repentaglio le catene di approvvigionamento. Il dominio della tecnologia italiana nella lavorazione di pasta, formaggio, caffè e olio d’oliva, settori in cui il Nord America è in crescita, è incarnato da aziende come Gruppo GEA (lavorazione di prodotti lattiero-caseari e bevande), I.M.A. (imballaggio alimentare e farmaceutico), SACMI (imballaggio bevande, lavorazione della ceramica), Cozzini (attrezzature per il taglio degli alimenti) e Unitek (linee di produzione di pasta).

Per mantenere il suo status di Superpotenza dell’agricoltura il Canada potrebbe avere bisogno del supporto crescente dei macchinari Made in Italy, a cominciare da CNH Industrial, di proprietà di  Exor e cui fanno capo i marchi Case IH e NewHolland. Nella pattuglia di produttori italiani presenti in Canada c’è anche tanta innovazione: il gruppo ARGO, per esempio, produce trattori per tutte le esigenze, attraverso marchi iconici come Landini, McCormick e Valpadana, ma è già impegnato nell’agricoltura di precisione. Il gruppo Carraro fornisce componenti B2B fondamentali per le macchine fuoristrada, con un focus sulla sostenibilità attraverso l’elettrico e l’idrogeno, mentre il gruppo BCS ha già imboccata la strada dei veicoli agricoli a guida autonoma.

I dazi di Trump hanno mandato in fibrillazione il settore auto, dove c’è lo strapotere americano, con il 50–60% del mercato in mano a GM, Ford e ai marchi storici Chrysler, Dodge, Ram e Jeep, oggi parte di Stellantis, con Tesla, nelle posizioni di rincalzo, al 5%. I marchi giapponesi, Toyota, Honda e Nissan, arrivano a circa il 30% delle vendite, quelli tedeschi (VW, BMW, Mercedes) si fermano al 10-12%, ma con maggiori entrate in virtù dei prezzi premium, mentre i sud-coreani, con Hyundai e Kia, sono all’8-10%. Nei guai sono soprattutto i produttori di massa (Stellantis ha già annunciato la chiusura due fabbriche in Canada e Messico, ma ha anche licenziato 900 lavoratori di uno stabilimento americano), mentre Ferrari e Lamborghini sono meno vulnerabili perché possono fare conto su una domanda canadese stabile, in particolare a Toronto e  Vancouver, indifferente rispetto agli aumenti di prezzo.

Pirelli e Brembo vengono da anni di crescita, la prima sospinta dal boom del segmento Suv, la seconda perché ha tenuto il passo con l’evoluzione tecnologica dettata dall’auto elettrica, fornendo Tesla e altri marchi i freni di nuova concezione per la rigenerazione.

Anche il settore della Difesa è in ebollizione. Il Canada è pronto ad aumentare gli investimenti, ma vuole rendersi più autonomo rispetto all’industrial-military complex americano. Per esempio,  ha chiesto ai cantieri navali di tutto il mondo di manifestare interesse per la costruzione della nuova flotta di sottomarini del paese. Un paio di cantieri navali sudcoreani – di solito concorrenti agguerriti – hanno collaborato a una proposta da 24 miliardi di dollari per vendere al Canada 12 sottomarini di ultima generazione. Oltre ai sudcoreani, hanno risposto aziende in Germania, Norvegia e Spagna.

Nella stessa direzione va la decisione di Ottawa di interrompere l’acquisto di 88 F-35 per un valore di 19 miliardi di USD. Tra le opzioni alternative possibili c’è l’Eurofighter Typhoon, sviluppato da un consorzio europeo (Germania, Italia, Spagna, Regno Unito), dove Leonardo è fornitore-chiave di avionica, sistemi radar e componenti per la cellula.

Più in generale, Leonardo, che potrebbe ampliare le partnership con le aziende aerospaziali canadesi come CAE e Bombardier, può dire la sua anche al cospetto di competitors come le francesi Thales Group e Dassault Aviation, la svedese Saab AB e la britannica BAE Systems. In particolare in materia di sviluppo delle “capacità artiche”, Leonardo è in grado di offrire sistemi compatibili con la NATO per ridurre la dipendenza canadese dalla tecnologia statunitense, garantendo anche un “dual use”, ovvero sistemi di controllo del traffico aereo, reti di comunicazione resistenti alle intemperie e stazioni radar costiere, impiegabili sia per la difesa che per le operazioni civili nell’Artico.

Nel settore moda l’Italia ha fatturato in Canada 40 miliardi di dollari nel 2024: è il quinto paese esportatore in Canada, con una quota di mercato del 3,7%, ed è l’unico paese europeo tra i primi dieci.

Con il 95% delle vendite di abbigliamento in Canada concentrate nel segmento non-luxury, l’interesse dei consumatori canadesi per i prodotti comodi e informali, adatti all’ambiente domestico e alle attività quotidiane, e per i prodotti cruelty-free e sostenibili, offre un indirizzo strategico alle aziende italiane.

La pattuglia di marchi della moda presenti in Canada, da Giorgio Armani a Dolce & Gabbana, da Prada-Versace a Moncler, per arrivare a Diesel e Stone Island, coprono sia il segmento del lusso che quello premium e casual.

Un altro settore critico è quello agroalimentare, dove l’Italia esporta merci per 1,5 miliardi di euro e si piazza alle spalle di USA e Messico.

Col boicottaggio, attualmente in atto, dei prodotti alimentari americani da parte dei consumatori canadesi, è facile prevedere che Barilla (che ha comprato il marchio canadese Catelli nel 2021), Ferrero (che produce in Ontario, ha fatturato €210 milioni di euro nel 2022, con una quota di mercato del 5,5%), Lavazza (€95 million, 4,2% di quota), ma anche i consorzi come quello del Parmigiano Reggiano o del Prosciutto di Parma, già presenti in Canada, possano avere margini di crescita.

Il vino da solo vale 450 milioni di dollari, con un possibile incremento del 20% come effetto dei dazi sulle etichette californiane (a beneficiarne sarebbero, tra gli altri, Masi, Antinori, Zonin e Frescobaldi). Proprio Lamberto Frescobaldi aveva indicato la strada al Corriere della Sera non più tardi di due anni fa: “Il Canada è un mercato in crescita per il vino italiano di alta qualità, soprattutto con le riduzioni tariffarie del CETA. Vediamo il potenziale per raddoppiare le nostre esportazioni in cinque anni, in particolare per i nostri vini Brunello e Bolgheri”.

Gancia, Campari, Aperol e Prosecco, forti della  estetica “instagrammabile” dello Spritz, sono in ascesa. Il Prosecco italiano in Canada batte lo champagne francese 5 a 1 in termini di volumi di vendita, anche se in valore rappresenta la metà, ma promette di crescere del 5-7% all’anno.

Il contributo italiano alla alimentazione dei Canadesi, peraltro, non si limita ai prodotti confezionati come pasta, olio, formaggi e salumi.

Il Canada importa frutta e verdura fresche per quasi 7 miliardi di CDN all’anno. Ad oggi, l’Italia contribuisce con poco meno di 200 milioni di dollari: agrumi siciliani, pomodori, kiwi. La stagionalità, le rigide normative canadesi sull’importazione di prodotti agricoli e i costi di refrigerazione e trasporto sono gli ostacoli da superare per fare crescere la quota di mercato del 4-6%. Il Canada importa pomodori “trasformati” per 600 milioni di dollari all’anno, principalmente dalla California. Se il concentrato di pomodoro e le salse statunitensi dovessero affrontare i dazi canadesi, i marchi italiani (Mutti, Cirio, La Doria) potrebbero guadagnare quote di mercato, grazie al vantaggio tariffario garantito dal CETA. Il Canada consuma agrumi provenienti da California e Florida e, in inverno, da Spagna e Marocco. La domanda agrumi italiani potrebbe aumentare per compensare il boicottaggio dei prodotti statunitensi.

La panoramica potrebbe continuare, ma quello che è certo è che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è solo un evento politico: è uno spartiacque per l’economia globale. Con l’America che si riposiziona su logiche protezionistiche e bilaterali, per l’Europa si riapre un capitolo di incertezza commerciale e diplomatica. Ma dentro ogni crisi c’è un’opportunità, e oggi si presenta con contorni chiari: rafforzare, in chiave strategica, l’asse economico tra Italia e Canada.

Sotto l’ombrello del CETA, i due Paesi hanno tutto da guadagnare da un’intesa più profonda. Il Canada porta in dote materie prime critiche, energie rinnovabili e stabilità istituzionale. L’Italia, con il suo know-how industriale, la capacità di trasformazione e l’appartenenza al mercato unico europeo, è un partner ideale per costruire valore aggiunto su scala transatlantica.

Roma e Ottawa possono gettare le basi per una nuova alleanza, evitando l’errore di plasmarla come una risposta tattica a Washington, facendone al contrario il building block di una strategia di lungo periodo.

(3.fine; la prima e la seconda parte si possono leggere rispettivamente qui e qui)

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