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Energia

Vi racconto le brutte novità per gli investimenti 4.0

La vittima inaugurale del complesso intreccio normativo e procedurale legato al Pnrr è il credito di imposta per investimenti in beni materiali e immateriali rispondenti ai requisiti “4.0”, cioè a elevata componente tecnologica e digitale. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

È da tempo che mettiamo in guardia sul fatto che il PNRR non sia affatto il percorso addobbato con rose e fiori che in molti continuano a raccontare. Per essere chiari, le perplessità non consistono in una pregiudiziale contrarietà, ma derivano da una argomentata analisi costi-benefici circa le modalità (condizioni, costi palesi e occulti, complessità organizzativa e procedurale) con cui tale piano di (necessari!) investimenti sarà eseguito.

Le spine erano già evidenti sin dalla lettura dei documenti preliminari pubblicati dalla Commissione a maggio 2020. Nei mesi successivi – fino alla definizione del regolamento UE a febbraio scorso – le spine sono diventate cespugli di rovi e ora eccoci qua già a leccarci le prime ferite.

La vittima inaugurale del complesso intreccio normativo, burocratico e procedurale che è stato messo in piedi per gestire il PNRR, è il credito di imposta del 50% (40% dal 2022) per investimenti in beni materiali e immateriali rispondenti ai requisiti “4.0”, cioè a elevata componente tecnologica e digitale. Una misura che, con diverse modalità ben note agli imprenditori e ai consulenti, esiste già dal 2017 ed è sempre stata pacificamente cumulabile con altri incentivi come la Legge Sabatini o il credito di imposta per investimenti al sud. L’unico limite è sempre stato il divieto di superamento del 100% del costo. Ma, dal 2021 – anche per fare numero e raggiungere la quota del 25% del PNRR dedicata alla transizione digitale – l’incentivo per beni “4.0” è finanziato da 13 miliardi di fondi UE e altri 5 di fondi nazionali ed è entrato nella misura 1 del PNRR sotto il nome “transizione 4.0”. Deve quindi necessariamente rispettare le regole UE.

Tra queste, ce n’è una che vieta il “doppio finanziamento” del medesimo costo. Nulla di nuovo, poiché è sempre esistita nell’ambito della normale programmazione di bilancio della UE, finalizzata ad impedire che uno stesso costo ricevesse benefici da diversi strumenti o programmi dell’Unione. E tale divieto è stato inserito anche nelle norme UE (articolo 9 del regolamento 241/2021) che disciplinano il PNRR. Ma – come spesso accade quando le norme UE sono recepite in Italia – lo scorso 14 ottobre il Mef ha emanato una circolare firmata dal Ragioniere Generale Biagio Mazzotta, in cui una sapiente “manina”, peraltro ben annidata in un allegato, ha esteso il divieto di doppio finanziamento aggiungendo, oltre agli strumenti della UE, anche le “risorse ordinarie del bilancio statale”. Andando così ben oltre la disposizione del regolamento UE.

Di conseguenza, il divieto di doppio finanziamento per lo stesso costo non riguarda solo strumenti e programmi dell’Unione, ma si estende a incentivi finanziati con risorse del bilancio statale. Quindi qualsiasi iniziativa finanziata dal PNRR sarà caratterizzata dall’assoluto divieto di cumulo con qualsiasi altro tipo di agevolazione.

Gli imprenditori che avevano pianificato o già eseguito investimenti facendo affidamento sull’agevolazione 4.0, cumulata con la legge Sabatini o il credito di imposta per gli investimenti al Sud, o altri aiuti regionali come il regime “ombrello” del decreto “Rilancio” del 2020, si troveranno così costretti a scegliere tra la prima agevolazione e una delle altre. Questi sono i “regali” della UE.

A conferma della gravità del problema, è stata la SIMEST (società controllata dal ministero dell’economia) a gettare per prima il sasso nello stagno, rifacendosi nelle FAQ a quella circolare per negare la cumulabilità di qualsiasi altro beneficio con gli incentivi per la digitalizzazione che sta gestendo, sempre finanziati dal PNRR. Il problema è stato poi rilanciato sulle pagine del Sole 24 Ore, da ultimo giovedì scorso, e l’allarme è ormai ampiamente diffuso tra tutti gli addetti ai lavori.

L’esempio più clamoroso è quello del piccolo imprenditore del sud che intendeva digitalizzare la propria azienda contando, fino a ieri, su un beneficio complessivo pari al 95% del costo (50% industria 4.0 e 45% “bonus sud”) da oggi – sperando che al Mef qualcuno non pensi perfino a una cervellotica efficacia retroattiva – si ritroverà con un incentivo quasi dimezzato.

Ma la gravità della vicenda non è solo nel merito – ancora una volta ci ritroviamo con la UE che apparentemente ci offre delle risorse ma nella sostanza ce le sottrae – ma anche nel merito. Può una circolare diventare fonte del diritto, non limitandosi a illustrare il contenuto di una legge ma ampliandone il contenuto? O, in alternativa, poiché riteniamo che alla Ragioneria nessuno scriva certe cose casualmente, si vuole implicitamente affermare che quel divieto di cumulo è sempre esistito e dagli uffici di via XX settembre si sono limitati a ribadire l’ovvio? Allora hanno sbagliato a Bruxelles, perché quando hanno approvato il PNRR sapevano che l’incentivo “4.0” era cumulabile – essendo scritto in lungo in largo già da mesi prima in leggi e circolari – e non hanno battuto ciglio, lasciando che gli imprenditori italiani pianificassero investimenti facendo affidamento sul cumulo.

Oppure ci azzardiamo a ipotizzare che al Mef abbiano voluto, per via amministrativa, porre un freno ad un cumulo di incentivi – in particolare industria 4.0 e bonus sud, ma anche la “Sabatini” – che si stava rivelando particolarmente oneroso per le casse statali, e allora è scattata la tagliola.

Però, fino a prova contraria, siamo ancora una Repubblica parlamentare e il potere legislativo è delle Camere e non dei burocrati ministeriali.

Non vorremmo essere in presenza del solito balletto Roma-Bruxelles che abbiamo già visto in scena con il tetto agli aiuti di Stato per il Covid, per i quali abbiamo capito solo dopo che siamo stati noi timidi nel chiedere e non avari a Bruxelles nel concedere. Nel frattempo le fiere italiane sono rimaste per quasi un anno a secco di aiuti.

Quando certe scelte sembrano ispirate da Tafazzi, non ci si può più nascondere dietro “ce lo chiede l’Europa” ed è bene che dal ministero dell’economia giungano risposte chiare su questa vicenda e che il Parlamento si riappropri del ruolo che la Costituzione gli riserva.

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