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Tunisia

L’intellighenzia italiana è pronta a battagliare contro i Rutte in Europa?

Il commento di Gianfranco Polillo a latere delle tensioni fra Rutte e Draghi

Se buona parte dell’intellighenzia italiana non fosse malata di esterofilia, forse la difesa dei grandi interessi nazionali sarebbe stata più solida. Ci sarebbe stato tempo e modo per rispondere a quei “frugali” che, dall’alto delle loro piccole economie, devono gran parte della loro ricchezza ad un flusso di esportazione, che si rivolge soprattutto verso il grande mercato dell’Unione. Nel 2019, Paesi come l’Olanda o la Danimarca, che vantano un surplus delle partite correnti della loro bilancia dei pagamenti pari rispettivamente al 9,9 ed all’8,9 per cento del Pil, hanno indirizzato verso gli altri partner europei il 68,7 ed il 53,1 per cento delle loro esportazioni.

A parte il fatto che le regole europee, quelle stesse che hanno un grado di cogenza pari al Fiscal Compact, prevedono un limite massimo del surplus con l’estero pari al 6% del Pil, va loro ricordato che l’economia ha un andamento circolare. Il vantaggio relativo, di cui godono, è frutto di un insieme di politiche economiche, messe in atto dagli altri Paesi, la cui risultante è quella che consente, appunto, alle ali dell’Ue livelli di benessere altrimenti difficilmente raggiungibili. Quindi attenti a non montare in cattedra per bacchettare presunti scialacquatori.

Non è stato bello vedere Mark Rutte, il premier olandese, fare ancora una volta il primo della classe. Rispondere seccamente a Mario Draghi, che aveva proposto di rendere strutturale il Sure, il programma per sostenere l’occupazione in Europa, con una dotazione di 100 miliardi. Nein: non ci sarà, almeno da parte dell’Olanda, alcuna concessione. Esauriti quei fondi, come quelli del Recovery Fund, si dovrà tornare alla vecchia normalità. Un antipasto di quel che potrà succedere nel prossimo vertice di giugno, quando i nodi del “che fare?” verranno al pettine.

Il premier olandese ha preferito anticipare, per riproporre un vecchio pregiudizio nei confronti dell’Italia, anche a costo di ignorare quanto la realtà internazionale e quella dell’Italia stessa fosse, nel frattempo, cambiata. Un evidente errore di prospettiva che, tuttavia, va, in qualche modo, analizzato e, per quanto possibile, spiegato. Se l’inquilino di Palazzo Chigi fosse ancora Giuseppe Conte non avremmo avuto dubbi. Ma ora quello scranno è occupato da Mario Draghi. E questo fa la differenza.

Conte era stato costretto a cercare in Europa quella legittimazione che in Italia non aveva. Il secondo è colui che con le sue “politiche non convenzionali” ha salvato l’euro. C’è forse qualcuno che può dubitare del suo europeismo ed usare questa carta per difendere posizioni precostituite? Per la verità, nella sua più che fortunata “ascesa”, l’avvocato del popolo non aveva fatto altro che seguire un andazzo precedente. Quella lunga tradizione della politica europeista italiana che, fin dagli inizi degli anni ‘90, era stata fortemente condizionata dalla storia nazionale.

A partire da quegli anni, infatti, si era posto il problema di una rilegittimazione della sinistra italiana, a seguito della caduta del muro di Berlino. In precedenza non erano mancate prese di posizioni rivolte ad allentare i legami troppi stretti con Mosca, ma si era trattato di tentativi troppo timidi. Tanto che l’89 colse il partito in mezzo al guado, costringendolo a ricercare nuovi riferimenti di carattere internazionale. E fu allora che l’Europa divenne una nuova stella polare, sebbene essa fosse stata duramente combattuta negli anni più duri della guerra fredda. In soccorso di un PCI, costretto a cambiar nome, venne il ricordo del Manifesto di Ventotene. Scritto da un ex comunista, come Altieri Spinelli, poi radiato con l’accusa di essere un trozkista, in collaborazione con Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi. Più un prodotto della cultura azionista che non di quella marxista.

Allora Carlo Azeglio Ciampi era Governatore della Banca d’Italia. Azionista egli stesso, sotto la sua direzione, la banca si era esposta molto nel teorizzare la necessità di un vincolo esterno. La pressione di una forza, contrapposta al ceto politico, che lo costringesse a fare quelle riforme che, altrimenti, nessuno avrebbe avuto il coraggio di portare a termine. Si crearono così i presupposti di quell’intesa che avrebbe segnato gli anni a venire. Con Ciampi che assumeva via via cariche sempre più importanti: da semplice ministro a Presidente del consiglio ed, infine, Presidente della Repubblica.

Ovviamente, nulla da eccepire, viste le alte qualità del personaggio. Sennonché quale fu l’effetto in Europa di quella complessa vicenda? Probabilmente il consolidarsi di un’idea che l’Italia andava, in qualche modo, commissariata. Perché questo aveva richiesto il suo establishment riconosciuto. Intendendo, con questa espressione, la sinistra di governo, visto che al centro-destra, guidato da Silvio Berlusconi, non solo non si attribuiva credibilità alcuna. Ma lo si osteggiava pubblicamente, sia attraverso una stampa compiacente che con plateali manifestazioni. Basti ricordare il siparietto tra Merkel e Sarkozy nel 2011.

Con Draghi, per la prima volta, questo castello di carte è destinato a crollare. L’Italia cessa di essere il sorvegliato speciale e può diventare protagonista. Cosa che allarma un vecchio establishment europeo, fino al punto da spiegare la scarsa diplomazia di Mark Rutte. Sarà sufficiente la semplice presenza di un grande commis d’état, sulla plancia di Palazzo Chigi, per consolidare la svolta? Ne dubitiamo. È tempo che l’intellighenzia italiana si dia una mossa. Esca dalle sue fumisterie ideologiche e si occupi finalmente dei grandi problemi nazionali.

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