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Come si moltiplica il virus della cattiva burocrazia

L'approfondimento di Augusto Bisegna e Flavia Palazzi

L’emergenza Coronavirus ci impone di reagire non solo affrontando l’emergenza sanitaria, ma anche predisponendo e attuando provvedimenti in grado di far compiere, finalmente, un salto di qualità al nostro paese nel suo complesso. Mentre sul piano della comunicazione la vicenda è stata gestita nel peggiore dei modi, provocando danni che pagheremo a lungo, l’aspetto più paradossale è che, davanti a un sistema dei media e della politica portato irresistibilmente all’estremizzazione, la reazione sul piano istituzionale è stata ancora una volta quella di favorire il dilagare di un altro “virus”, quello della burocrazia. Provvedimenti e decreti si moltiplicano come le sequenze del dna di un virus che infetta la catena del nostro apparato amministrativo: regioni, provincie, comuni ricevono e replicano, spesso ingenerando confusione e ridondanze, provvedimenti che arrivano dal Parlamento, spesso con un unico risultato: il caos.

Come diceva Ennio Flaiano: in Italia la linea più breve tra due punti è un arabesco. È la metafora efficace di un paese in lotta con se stesso, dove lo Stato, aggravato da un faraonico apparato burocratico, fa da zavorra a cittadini e imprese. Un costo di cui, spesso, nemmeno ci accorgiamo, che limita fortemente la capacità di crescita e sviluppo del paese e delle imprese. La gestione di questa emergenza sanitaria ci ha ricordato che – ad esempio – la riforma del Titolo V della nostra Costituzione del 2016, proposta dall’allora governo Renzi, pur con tutti i difetti del caso, oggi avrebbe permesso di reagire con più facilità alla crisi sanitaria che stiamo vivendo; oggi, per esempio, per l’acquisto di mascherine o di guanti e gel disinfettante, ciascuna regione, sino ad un intervento del Governo, si è mossa per conto proprio mettendo in crisi le zone del paese dove più in queste ore se ne avrebbe avuto il bisogno. Stessa cosa dicasi per scuole, trasporti, ecc.

Ma torniamo al tema della burocrazia. Se per i cittadini il costo della burocrazia si traduce in file e giornate perse tra un ufficio e l’altro, per le imprese si trasforma in un danno esorbitante. Nei bilanci delle aziende, che siano piccole imprese artigiane o grandi multinazionali, non vedrete mai sotto la colonna “costi” la voce “burocrazia” che, tuttavia, grava sulla produttività complessiva e sul Clup. È un peso enorme, che si scarica sull’efficienza complessiva del sistema economico e sociale, con costi che vanno al di là del mero balzello economico. In Abruzzo, ad esempio, Lfoundry, una grande impresa di Avezzano che opera nel campo dei semiconduttori occupando circa 1500 dipendenti e che rappresenta un esempio virtuoso per l’economia territoriale e regionale, quotidianamente si scontra con una pletora di adempimenti burocratici e normativi, spesso in conflitto l’uno con l’altro. Autorizzazioni e permessi che per la loro lentezza risultano incompatibili con le tempistiche dei piani industriali e con le esigenze di mercato di un’azienda che opera a livello globale: norme nazionali, regionali e locali contradditorie ed eccedenti, ridondanti e spesso confliggenti anche con i regolamenti europei e gli standard del settore. Per non parlare dell’assenza di assunzioni di responsabilità, che si traduce in un palleggio continuo tra vari uffici e competenze, per trasformarsi poi in ulteriori costi che a loro volta soffocano produttività, efficienza e occupazione.

Aggiungiamo a tutto questo anche un atteggiamento estremamente conservatore e poco flessibile da parte degli uffici della pubblica amministrazione, che spesso scordano il proprio ruolo guida in questa selva di leggi, normative e burocrazia e quasi sembrano divertirsi nel piazzare trappole e ostacoli che rallentano e confondono utenti e imprese, tra autorizzazioni e rinvii che vanno dall’AIA alle autorizzazioni per gli scarichi idrici, fino al nullaosta per le sorgenti radiogene e gas tossici, e che finiscono, tutti, per ritrovarsi in fondo ai cassetti, dimenticati per anni. E ancora, sempre in Abruzzo, il tema dell’approvvigionamento idrico diventa un labirinto dove la società a partecipazione pubblica che gestisce il servizio è in pre-dissesto e, nella procedura di rientro, decide di aumentare le tariffe; la cosa incredibile è che lo ha fatto, e ha potuto farlo, retroattivamente, comunicando il 9 gennaio 2020 un aumento delle tariffe anche per gli anni 2018 e 2019.

Tutto questo, purtroppo, sta diventando la normalità contro la quale si trova a combattere, ogni giorno, chi fa impresa nel nostro paese. Un groviglio di rovi burocratici in cui è difficile districarsi, che avrebbe potuto essere ripulito in parte dalla riforma, bocciata invece dal referendum Costituzionale, del Titolo 5, con un riordino delle competenze tra Stato e Regioni. Molti imprenditori e aziende rischiano, spesso, di sconfinare in un regime di irregolarità formale perché, ad esempio, attendono un’autorizzazione che tarda ad arrivare oppure che si è perduta in chissà quale ufficio. Irregolarità, a volte, tollerate dallo Stato quasi a parziale ricompensa di queste disfunzioni.

A inizio 2020, la Commissione Europea ha pubblicato un interessante articolo sui costi della burocrazia in Italia. Dallo studio è emerso che avviare un’attività nel nostro Paese sia più facile ad Ancona e Milano, e come la stessa Ancona sia al penultimo posto per la quantità di procedure relative all’installazione dell’elettricità, mentre Milano all’ultimo nell’ottenimento di permessi di costruzione. Inoltre, emerge quanto sia più facile registrare proprietà a Roma, che però paradossalmente è la città italiana dove è più difficile inaugurare un’attività. Traducendo il tutto in numero di giorni, avviare un’attività ad Ancona, a Milano e a Padova ne richiede in media 5, a Roma 11. Sempre in numero di giorni, ottenere un permesso di costruzione a Milano ne richiede 105, a Cagliari 115 (le due città italiane più veloci), a Roma 189. Spostandoci al Sud si raddoppia il tempo: Reggio Calabria 325.5 e Napoli 298.5.

A questi costi si sommano poi le spese “vive” per avviare un’impresa, che ammontano a quasi il 14% del reddito pro capite: si tratta del dato più alto dell’Unione Europea. Circa il 75% di questi costi (l’equivalente del 10% del reddito pro capite) è attribuibile alle commissioni notarili per rappresentare e creare la società, agire e preparare altri documenti fondativi. Requisiti notarili simili esistono in altri paesi europei, ma vi è comunque una grande differenza rispetto all’Italia. Per fare un esempio, le spese notarili ammontano al 5% del reddito pro capite in Germania e al 2% in Spagna. Secondo il codice civile italiano, la società è tenuta a conservare tutti i libri contabili e i verbali delle riunioni del proprio consiglio di amministrazione e del proprio collegio sindacale, che sono soggetti a certificazione. Il costo dell’acquisto e la certificazione di questi libri può aumentare rapidamente nel corso della vita dell’azienda. Per non parlare poi delle licenze di costruzione per le quali, in Italia, un imprenditore spende mediamente 57.194 euro. In questo quadro di sprechi e lottizzazioni, grida vendetta il fatto che per i dipendenti pubblici si faccia sempre fatica a reperire le risorse per rinnovare i contratti e costruire condizioni di lavoro migliori ed efficaci.

I costi della burocrazia, sommati all’instabilità e inaffidabilità della politica, alla carenza delle infrastrutture materiali e immateriali, a un sistema giudiziario lento e alle difficoltà dell’accesso al credito, rendono sempre più l’Italia un Paese incapace di attrarre investimenti interni ed esteri.

Un gap, quello della burocrazia, che frena letteralmente il Paese fra ritardi e commissari straordinari; un danno che potrebbe essere notevolmente ridotto introducendo e investendo sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione. Smart Contract e blockchain, come hanno scritto il Segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli e Massimo Chiriatti nell’agosto 2018 nel “Manifesto per un nuovo bene pubblico digitale”, potrebbero rappresentare il nuovo bene pubblico, riducendo tempi e costi della burocrazia e rendendo trasparente, sostenibile ed efficiente, anche sul piano sociale, il rapporto tra imprese e Stato.

L’emergenza in atto dovrebbe farci riflettere sulla fragilità dei nostri sistemi industriali ed economici, strettamente interconnessi dentro le catene globali del valore. In queste ore tanti stanno ragionando sul fatto che forse alcune produzioni strategiche in questi momenti sono un valore enorme, dovremmo smetterla di vessarle e creare le condizioni per poter operare con maggiore serenità nel nostro paese non aggiungendo ulteriore burocrazia. Covid-19 non accorcerà il mondo. Ma se sapremo fare scelte adeguate e sistemiche anche sul fronte della burocrazia, forse questa crisi sanitaria potrebbe tramutarsi in un’occasione per risolvere tanti nodi strutturali del nostro paese e favorire la reindustrializzazione.

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