Il decennale anniversario del fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers, che ha dato il via alla più grande crisi finanziaria ed economica della storia, è appena stato celebrato come un semplice «fatto del passato». Per molti è un evento da dimenticare, per alcuni qualcosa su cui riflettere e da cui imparare.
Secondo noi, invece, dovrebbe essere il momento per guardare con maggiore attenzione alla realtà odierna. Sono troppi i segnali, purtroppo ignorati nelle sedi competenti, dei crescenti rischi di una nuova e più grave crisi globale. E che proprio ieri sono esplosi un po’ ovunque nel mondo. Non si tratta di pessimismo. Occorre avere la lucidità di capire quanto sta accadendo e la volontà di non ripetere gli stessi errori di omissione del passato.
L’attenta e precisa analisi del The New York Post, pubblicata il 23 settembre scorso, ci rivela che il debito aggregato mondiale ha raggiunto la vetta di 247 mila miliardi di dollari. Nel 2008 era di 177 miliardi di dollari. Già il titolo dell’importante giornale è eloquente e preoccupante: «Ci potrebbe essere un crac finanziario prima della fine del mandato di Trump».
L’analisi evidenzia in particolare la situazione degli Usa. In dieci anni il debito pubblico americano è più che raddoppiato. Ha raggiunto il picco di 21 mila miliardi e potrebbe determinare una brusca frenata dell’attuale pretesa ripresa economica. Secondo il Congressional Budget Office, quest’anno Washington dovrà sborsare 390 miliardi di dollari soltanto per pagare gli interessi sul debito pubblico.
Si stima che in un decennio tale quota annuale potrebbe essere di 900 miliardi di dollari, superando l’enorme budget militare. Il debito delle famiglie americane ha raggiunto i 13.300 miliardi di dollari. Ciò è dovuto al fatto che le ipoteche immobiliari sono pari a 9.000 miliardi, superando il livello del 2008. I debiti fatti per finanziare i prestiti agli studenti sono passati dai 611 miliardi del 2008 ai 1.500 di oggi.
Quelli per l’acquisto di auto sono cresciuti moltissimo fino a 1.250 miliardi. Anche il debito totale sulle carte di credito è ritornato ai livelli di dieci anni fa. Si teme che il finanziamento dei prestiti per gli studenti, che in tre anni dovrebbero raggiungere i 2.000 miliardi di dollari, possa diventare il detonatore della prossima crisi. Si ricordi che la bolla dei mutui subprime, che fu una delle principali cause del crac, nel marzo 2007 era pari a circa 1.300 miliardi di dollari.
L’aumento del debito aggregato negli Usa è l’inevitabile conseguenza della politica dei tassi d’interesse zero e dell’immissione di massiccia liquidità attraverso il quantitative easing. Adesso la Federal Reserve sta cambiando rotta e aumenta i tassi. Occorrerà vedere gli effetti sul mercato azionario di Wall Street, che è nel frattempo cresciuto a dismisura. Anche nelle economie emergenti gli effetti sono, purtroppo, già visibili e hanno generato fughe di capitali che stanno destabilizzando vari paesi, tra cui l’Argentina, l’Indonesia e la Turchia.
Anche lo shadow banking è cresciuto enormemente: si è passati dai 28mila miliardi del 2010 ai 45mila di oggi. Sheila Bair, ex presidente della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’importantissima agenzia governativa che fornisce la garanzia pubblica ai risparmi dei cittadini, torna a paventare rischi di nuove crisi. «Siamo in una bolla», e aggiunge che in una tale situazione è assurdo che le regole e i requisiti di capitale delle banche siano stati annacquati. Non è vero, afferma, che le bolle sono riconoscibili soltanto in retrospettiva, cioè dopo che sono scoppiate. Non è possibile indicare solo il momento dello scoppio. Ma la politica della Fed ha fatto di tutto per sostenere la crescita della bolla finanziaria. Altri moniti sono venuti da ex capi di governo, come l’inglese Gordon Brown, al potere a Londra allo scoppio della grande crisi, che evidenziano che si sta camminando ciecamente verso un futuro crac.
Anche Jean-Claude Trichet, governatore della Bce dal 2003 al 2011, vede nella crescita del debito il pericolo di una nuova grande crisi.
Ancora una volta riteniamo che non si possa sfuggire all’impellente necessità di sedersi intorno al tavolo per definire una nuova Bretton Woods, una nuova architettura condivisa che regoli il sistema economico, finanziario e monetario internazionale.
Articolo pubblicato su ItaliaOggi