La retorica tradizionale ha sempre sottolineato il ruolo positivo svolto dai corpi intermedi, considerati fattori di stabilizzazione politica del Paese e cinghia di trasmissione tra le classi dirigenti e gli interessi dei gruppi sociali, insomma tra il potere e il popolo. Ma è sempre stato davvero così? Una risposta prudente potrebbe attestarsi su un salomonico “dipende”. Ad esempio, se non c’è alcun dubbio sul contributo positivo delle organizzazioni di rappresentanza nei due anni del Covid, è tuttavia lecito chiederci se alcuni dei grandi problemi del Paese siano, almeno in parte, riconducibili alla cristallizzazione di molti interessi organizzati in solide associazioni di tutela, protese a difendere il loro particolare, senza attitudine alla verifica delle compatibilità generali. Del resto, va ricordato che il numero delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi in Italia non ha eguali al mondo. In parte, perché le associazioni sono derivate dai maggiori partiti del dopoguerra resistendo alla crisi della matrice originaria, in parte perché sono sussidiate in molti modi dallo Stato e favorite da una legislazione di sostegno generosa, in parte, infine, perché si sono estese a macchia d’olio ben oltre i confini degli interessi dei lavoratori e delle imprese.
Vi è il caso assurdo di un’associazione di tutela degli interessi dei Comuni (tarata sui più indebitati), ricalcata sul modello del sindacato, in perenne conflitto con Governo, Parlamento e Regioni. Ma vi sono anche esperienze di rappresentanza interessanti delle competenze cognitive che escono dai tradizionali schemi confederali. Si pensi ai liberi professionisti ordinistici che si sono associati per promuovere i loro mestieri e per negoziare il CCNL dei loro dipendenti. Anche i professionisti non ordinistici hanno dato vita ad associazioni di mestiere, reti nazionali attraverso le quali si scambiano informazioni e valutazioni in una logica comunitaria ancorché virtuale. Spesso le professioni sono percepite come attività solitarie, ma in realtà vengono sempre più realizzate in studi associati o attraverso lo scambio delle buone pratiche. AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) è invece un’associazione di manager che non fa contrattazione collettiva ma nondimeno aiuta gli associati ad integrare e confrontare le esperienze. Anaao riunisce i medici ospedalieri (dipendenti) mentre FIMMG associa i medici di medicina generale (indipendenti ancorché convenzionati). Tutte e due le associazioni fanno contrattazione collettiva ed erogano servizi agli associati promuovendo l’evoluzione del loro ruolo.
Per immaginare il futuro di questo grande mondo associativo è bene considerare ciò che sta accadendo nel resto del continente. I regimi di rappresentanza “neocorneocorporativi” del Centro-nord europeo, istituzionalizzati nelle periodiche concertazioni con il governo, hanno oggi funzioni e influenza ridotte ma non si esclude ovunque una ripresa dei patti tripartiti in presenza di particolari ragioni di crisi. Più in generale, si assiste al ridimensionamento del peso delle associazioni dei lavoratori e soprattutto delle imprese. Alcune ricerche riassumono così i meccanismi causali: a) l’indebolimento dei sindacati per le trasformazioni intervenute nei mercati del lavoro tende a ridurre i benefici che anche le associazioni datoriali possono offrire ai propri membri in quanto titolari della contrattazione collettiva nazionale; b) tale effetto proviene anche dalla tendenza a decentralizzare la contrattazione al livello della singola azienda o dei territori; c) l’intensificazione della competizione di mercato ha costretto le aziende a tagliare i costi e le aziende hanno trasmesso queste pressioni alle proprie associazioni imponendo loro riforme organizzative finalizzate a ridurre il personale e a tagliare i budget; d) il crescente numero di microaziende crea problemi di adesione associativa, perché organizzare queste aziende è particolarmente difficile per tutte le associazioni, specie per quelle dominate dalle grandi imprese.
Questi sviluppi rappresentano una sfida per le associazioni di rappresentanza delle imprese. Innanzitutto l’inasprirsi della concorrenza fa emergere per la prima volta un vincolo di budget legato a un tetto alle quote associative, spingendo verso riforme tendenti alla “sobrietà organizzativa”, alla massima efficienza, all’eliminazione delle spese inutili e delle ridondanze. Tale rigore è anche funzionale a una difesa della legittimità delle associazioni, che devono evitare di apparire di fronte all’opinione pubblica come parte della “casta” politica e dei suoi sprechi. Nella crisi della funzione tradizionale di rappresentanza, assume poi rinnovata importanza la fornitura di servizi vecchi e nuovi agli associati. Questo è particolarmente vero per quel che riguarda la piccola e la microimpresa che difficilmente possono internalizzare le competenze manageriali, finanziarie e commerciali oggi più che mai necessarie per competere.