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I mercati stanno cuocendo a fuoco lento il governo Conte. Serve utopia o realtà?

Il commento di Gianfranco Polillo

La forza dell’utopia non è mai a senso unico. Può essere una molla potente che accelera il destino della storia. Ma può anche lastricare la strada che conduce all’inferno. Fino a giungere a quell’eterogenesi dei fini che fu tipico della Russia sovietica. Alexis Tsipras, in fondo, ne era consapevole. Di fronte al bivio di una crisi che rischiava di divenire irreversibile, mutò rotta. Buttò alle ortiche i risultati di un referendum, che puntavano allo scontro finale con l’Europa, ed accettò un compromesso, per quanto doloroso. I cui costi sarebbero stati minori se, fin dall’inizio, fosse prevalsa l’esatta percezione dei relativi rapporti di forza. E l’analisi attenta del conto del dare e dell’avere.

Purtroppo nel decorso della crisi il tempo è una variante determinante. Se i giorni passano inutilmente non si ha lo stesso risultato, ma in genere le perdite aumentano e si cumulano. Se prima di impostare la “manovra del popolo” si fosse percepito, con sagacia, il sentiment dei mercati – spread a 300 punti base – oggi non saremo a questo punto. Allora il ministro Giovanni Tria fornì le assicurazioni necessarie e le acque si calmarono. Sembrava fatta. L’impuntatura congiunturale domata. Bisognava solo essere conseguenti. Ma, purtroppo, così non è stato.

La delusione dei mercati è stata, quindi, profonda. Quel tratto, all’inizio solo congiunturale, è divenuto strutturale. Fissando il livello di medio termine degli spread in un canale compreso, almeno finora, tra i 300 ed i 350 punti base. Con una crescita ancora maggiore dei Cds (credit default swap): quella sorta di premio che si paga a fronte del rischio di insolvenza di casa Italia.

Il conto di questi ritardi si vedono già in controluce. In pochi mesi, secondo i calcoli di Banca d’Italia (Rapporto sulla stabilità finanziaria) la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane (titoli obbligazionari ed azioni) è diminuita del 3,5 per cento. Qualcosa come 150 miliardi di euro andati in fumo. Più dell’8 per cento del Pil. Una vera e propria patrimoniale: almeno nella sostanza, se non nella forma.

Il vero paradosso è che questo prelievo, seppur non definitivo, non ha ridotto di un euro la portata del debito dell’Italia. Che, al contrario, sembra destinato a crescere. Si può naturalmente sperare che quel che finora è successo sia solo un brutto sogno: come cerca di dire, non sappiamo con quanta convinzione, il presidente del consiglio, Giuseppe Conte. Ma se non fosse così? Se le cose, com’è invece più probabile, dovessero ancora peggiorare, specie dopo l’avvio della procedura d’infrazione da parte della Commissione europea? Questo è il limite intrinseco di tutte le utopie. Rompono ogni legame con il principio di realtà.

Alexis Tsipras, nel bel mezzo della tempesta greca, non volle correre questo rischio. Preferì privarsi della collaborazione di un ministro, pure carismatico, come Gianīs Varoufakīs, e bere l’amaro calice del realismo. Non sappiamo come reagirà Matteo Salvini, dopo aver ceduto ai 5 stelle lo scettro di comando della politica economica. Ma è sempre più evidente che le contraddizioni inconciliabili del “contratto di governo” sono ormai venute al pettine. Si può anche, anzi si deve, poter scommettere su una maggiore crescita del Pil per contenere il debito pubblico italiano. Ma poi occorre coerenza, unità d’intenti, linee programmatiche adeguate. Rinviando la divisione dei pani e dei pesci una volta ottenute le risorse necessarie per soddisfare quella fame antica. Anticipare i tempi o rovesciare le priorità è solo il tentativo di ingannare i mercati. Che sono molto più furbi ed agguerriti di giovani leader senza passato. E forse senza futuro.

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