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Banche Centrali

Perché c’è una guerra sotterranea fra governi e banche centrali

Che cosa succede non solo nell'Unione europea. L'analisi di Liturri.

Da Jackson Hole, tra le montagne del Wyoming, è arrivato l’atteso messaggio da parte del presidente della Fed: tra pochi giorni partirà il percorso di riduzione dei tassi negli USA. Il rischio di ritrovarsi con una disoccupazione crescente è ormai troppo elevato e supera il rischio di essere troppo accomodanti e permettere un nuovo rialzo dell’inflazione.

Christine Lagarde è invece ancora in vacanza e, nel frattempo, il cambio euro/dollaro è ai massimi degli ultimi tre anni, con ulteriore effetto depressivo sulle esportazioni e effetto deflazionistico sulle importazioni.

Il risultato è che ormai si raccolgono i cocci dell’economia europea.

La produzione industriale in Italia e nell’eurozona a giugno ha provato a invertire un lungo e strutturale trend discendente, cominciato a metà 2022, ma la Bce continua a vedere fantasmi di inflazione ovunque sulla strada della riduzione dei tassi.

Questa volta a preoccupare Francoforte è la stagnazione della produttività del lavoro che nel secondo trimestre fa segnare un -0,4% (dopo un -0,5% nel primo trimestre) rispetto allo stesso periodo del 2023.

Dall’Eurotower fanno sapere che questo complica i piani per imboccare il sentiero di una politica monetaria meno restrittiva. Infatti, con la produttività ferma e i salari nominali in crescita, il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) aumenta e comprime i profitti aziendali, a meno che le imprese non decidano di scaricare tale aumento sui prezzi a valle. Alimentando così la tanto temuta spirale prezzi-salari.

Va infatti ricordato che il principale motore di trasmissione dell’ondata inflattiva del 2022-2023 è stata proprio la decisione delle imprese, ove possibile, di scaricare a valle l’aumento dei prezzi energetici, spesso in misura più che proporzionale, aumentando i margini di profitto.

Ma, se questo è lo scenario temuto dalla Bce, l’avvitamento verso il basso è inevitabile. Per due ordini di motivi. In primo luogo, l’aumento della produttività deriva anche da maggiori investimenti, che a loro volta sono funzione del costo del capitale e delle prospettive della domanda.

L’attuale livello dei tassi di interesse – sia quelli nominali che, soprattutto, quelli reali al netto dell’inflazione – è tale da rendere non profittevoli una quota consistente di progetti di investimento che restano quindi nei cassetti.

Frenando gli investimenti e la conseguente maggiore produttività, la crescita dei salari è destinata ad arenarsi e non riuscirà nemmeno a recuperare il potere d’acquisto perduto nei lunghi mesi dell’iperinflazione, come stava timidamente accadendo da qualche trimestre. D’altro canto, senza maggiori salari, la domanda langue e la produttività ristagna, per cause sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda. E il circolo vizioso si autoalimenta.

In secondo luogo, a Francoforte devono una buona volta togliere il disco rotto dei timori di crescita dei salari nominali come potenziale causa di inflazione. Si tratta – come ha magistralmente spiegato il governatore di Bankitalia Fabio Panetta – del semplice riallineamento dei salari reali falcidiati in Italia dalla deflazione salariale degli anni dieci (quelli con la sinistra sempre al governo) e dall’ultimo picco inflattivo. I margini di profitto delle imprese, tonificati da un biennio positivo, hanno mediamente spazio sufficiente per assorbire gli aumenti e non scaricarli a valle sui prezzi. Quello di cui le imprese hanno immediatamente bisogno è poter investire a tassi reali più bassi contando su prospettive di solidità della domanda, generando così crescita della produttività e aumento dei consumi, via aumenti salariali.

Allora bisogna rimettere in moto la catena di trasmissione nella direzione giusta e virtuosa e il grimaldello – ancorché sia una condizione necessaria ma non sufficiente – è una riduzione dei tassi. Ma tutto fuorché una riedizione del balbettio del taglio operato a giugno per 25 punti base.

Mentre negli Usa ormai appare certo un taglio di 75 punti base entro fine anno, la Bce non trova di meglio che far trapelare la propria “preoccupazione” per dati, come quello della produttività, che dovrebbero ricevere un stimolo positivo dalle decisioni di Christine Lagarde, non costituire una improbabile foglia di fico per non fare nulla.

Le difficoltà che emergono dai dati della produzione industriale, letti in prospettiva, sono la fotografia di un declino nemmeno troppo lento. Fatto 100 il livello del 2021, a giugno l’Italia annaspa a quota 95,5, la Germania sprofonda a 93,5 e la Francia galleggia a 99,5. Tre anni perduti. In confronto a giugno 2023, siamo rispettivamente a -2,6%, -4,1% e -1,7%. Nemmeno la fine della crisi dei prodotti energetici è riuscita a invertire significativamente il trend discendente.

Questi sono gli effetti delle scelte fallimentari di politica industriale operate dalla UE, con una manovra a tenaglia. Da un lato, il Green Deal lanciato nel 2021 ha cercato di riorientare forzosamente l’industria europea a favore della transizione energetica, trascurando i colli di bottiglia produttivi, fondando tutto su un’ossessiva regolamentazione e generosi sussidi pubblici e scontrandosi con una domanda che si è rivelata molto debole (auto elettriche, ad esempio). Dall’altro, la gestione isterica degli acquisti di gas nell’estate 2022, ha messo in ginocchio i settori più energivori. Da ultimo, l’intero settore automotive è stato messo di fronte a obiettivi irrealizzabili.

Spingere decisamente su settori in strutturale deficit di capacità produttiva (in tutti gli stadi della filiera) ha scatenato tensioni inflazionistiche che dureranno a lungo e squilibri nella bilancia commerciale extra-UE. I sussidi e le incertezze regolamentari hanno creato diffidenza negli investitori che dubitano della loro permanenza nel tempo e ridimensionano i progetti. Sono gli stessi vizi strutturali che sta affrontando Joe Biden negli Usa con il suo piano da 400 miliardi di dollari di incentivi per investimenti nella transizione energetica e digitale, bloccati o in grave ritardo per almeno il 40%, come dettagliatamente documentato in prima pagina dal Financial Times la settimana scorsa.

La Bce, mantenendo i tassi reali così alti, mentre a parole si professa paladina della transizione ecologica, nei fatti abbatte il ritorno per gli investitori di progetti che solo un costo del capitale molto basso potrebbe rendere profittevoli.

Ci ritroviamo così con la politica monetaria che mette in difficoltà anche quel poco di sviluppo che una sia pur discutibile politica industriale potrebbe generare.

Giova ricordare che l’indipendenza delle banche centrali – e la Bce spicca per la sua “blindatura” – ebbe origine negli anni venti del secolo scorso, per proteggere decisioni così delicate dalla volubilità del processo decisionale democratico.

Oggi invece è quest’ultimo ad essere minacciato da decisioni di soggetti politicamente irresponsabili.

Fino a quando sarà consentito che decisioni squisitamente politiche, come quelle sui tassi e la liquidità, siano prese da soggetti sottratti al normale circuito democratico, protetti dalla foglia di fico della neutralità delle decisioni economiche? Il governo degli Ottimati appartiene ad un’altra epoca storica che vorremmo aver messo alle nostre spalle.

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