Antonio Polito, commentando dalle pagine del Corriere la drammatica spaccatura politica che ha diviso il Parlamento europeo, è andato alle origini del problema. Il green plan, vale a dire ciò che si dovrebbe fare (il condizionale è d’obbligo) per invertire la marcia del grande degrado ambientale, non è tema che unisce. Ma divide. E di conseguenza la maggioranza Ursula è andata in pezzi.
IL GREEN DEAL DIVIDE IL PARLAMENTO EUROPEO
Da un lato un pugno di popolari che hanno seguito le indicazioni del loro capogruppo. Dall’altra la maggioranza di quello schieramento che ha cercato, votando con le destre, di anticipare quello che, con ogni probabilità, avverrà nella prossima legislatura. Colpaccio che, comunque, non è riuscito. Poiché il Parlamento ha comunque supportato le tesi del commissario Timmermans (nella foto). Sebbene siano in molti a considerarlo un pasdaran dell’ambiente destinato a lavorare per il Re di Prussia: l’estremismo anti-ecologico.
QUESTIONE VERDE E QUESTIONE SOCIALE
Per Polito la “questione verde” è destinata ad avere una rilevanza analoga, se non superiore, a quella “democratica” ed a quella “sociale”. Che caratterizzarono, rispettivamente, l’800 ed il “secolo breve”. Con una differenza, almeno a nostro avviso. Quelle questioni erano comunque circoscritte, in una dimensione di carattere nazionale, anche quando l’imperialismo aveva assunto la forma della “fase suprema del capitalismo” (Lenin). La questione verde, invece, per sua natura ha una dimensione planetaria che è prevalente.
Giustamente Polito ricorda che “l’Europa produce appena l’8-9% delle emissioni globali” di CO2. E per quanto nel Vecchio Continente si faccia il possibile per contenerle, la loro produzione aumenta continuamente. È infatti il Sud globale – Cina ed India in testa – che non vuol rinunciare a crescere e consumare. In uno logica di emulazione con l’Occidente che appare difficilmente contenibile. Soprattutto criticabile. La verità è che dato l’attuale stadio della tecnica, in cui il consumo dell’energia fossile è ancora così rilevante, solo le tragiche profezie di Malthus potrebbero invertire un trend altrimenti inarrestabile.
Un simile quadro, seppur sommariamente evocato, racchiude un sé tutte le difficoltà dell’agire. La prima è relativa alla scala dell’intervento. Occorrerebbero misure di carattere internazionale, capaci di imporre comportamenti virtuosi a tutti i Paesi. Quella sorta di “pace perpetua”, evocata da Emmanuel Kant, che resta la grande utopia del pensiero politico moderno. L’aggressione russa all’Ucraina, tra le mille altre cose, rappresenta un costo enorme per gli equilibri green del Pianeta, che, al momento, nessuno è in grado di quantificare.
In passato la “questione democratica” fu risolta dalla discesa in campo di una borghesia, che non sopportava più i privilegi della aristocrazia. Quella “sociale” dalla forza crescente di una classe operaia che, a sua volta era stata anche il prodotto dello sviluppo capitalistico. Quale sarà, allora, il coté sociale della rivoluzione del Terzo millennio? Rispondere a questa domanda è importante per comprendere anche il valore di quella frattura politica che si intravede, come si diceva all’inizio, nel Vecchio continente. Non v’è dubbio, infatti, che in Europa i movimenti green hanno un’audience maggiore, rispetto agli altri Continenti. Ed allora la frattura di cui si diceva non è solo politica, ma sociale e culturale.
IL GREEN DEAL E IL GRANDE DRAMMA SOCIALE
Polito cerca di fare i conti con questo puzzle. E l’immagine che ne risulta è quello di un arcipelago frastagliato, in cui nessuna isola ha la forza di essere un centro gravitazionale. “Da un lato” – ci dice Polito – ci sono “i ceti urbani, dall’altro quelli rurali. Da un lato i nuovi lavoratori dell’economia immateriale e digitale, che vorrebbero un mondo più rispettoso della natura, dall’altro chi lavora con la terra, i trasporti, gli animali, e dalla natura trae il suo reddito.” Per poi continuare “da un lato i giovani che seguono Greta e si preoccupano del futuro del Pianeta perché è anche il loro, dall’altro chi teme di impoverirsi oggi in cambio di un domani che probabilmente non vedrà. Ci sono insomma tutti gli elementi per il grande dramma sociale, del genere che mette contro generazioni e ceti, che si trasforma in una «guerra culturale» tra progressisti e conservatori, tra rivoluzionari e reazionari”.
Si potrà evitare? Difficile rispondere. Più semplice sarebbe cercare di non incentivarla. In questo grande guazzabuglio, la variante tempo ha un’importanza straordinaria. È infatti evidente che se più si allunga la speranza di vita, maggiore è l’interesse a vivere in un mondo non sospeso sull’abisso del degrado. Questione di semplice ragionevolezza, anche perché con il trascorrere dei mesi e degli anni, senza i necessari interventi, la qualità della vita rischia di subire un peggioramento accelerato.
Si dovrebbe, quindi, intervenire fin da subito. Se le risorse disponibili fossero adeguate ed equamente ripartite. Ma così non è. Ed è allora che la scarsità relativa contribuisce ad accentuare il conflitto tra i soggetti differentemente interessati alla soluzione del problema. È infatti evidente che alla generazioni più anziane, con un orizzonte di vita limitato, interessi ben poco di scoprire cosa sarà il mondo dei prossimi dieci o vent’anni. Potranno essere più duttili, pensando ai propri figli o nipoti, ma su questo sentimento, più che nobile, è difficile poter contare ai fini di una soluzione di sistema.
Ed allora l’unica soluzione realistica è quella di consentire quella flessibilità di bilancio necessaria ai singoli Stati per edificare le infrastrutture di un mondo migliore. È la proposta italiana di riforma del Patto di stabilità. Rigore nel business as usual. Vale a dire nella normale conduzione della politica congiunturale. Ma “golden rule” per gli investimenti necessari per la produzione di quei “beni europei” che sono la nostra assicurazione per un futuro più green e meno tossico. Ancor meglio se quegli stessi beni potessero essere direttamente finanziati dall’UE, in grado di spuntare, per la provvista finanziaria, un tasso di interesse minore.
Ed il debito? Non solo quello italiano, considerato che quello medio, a livello internazionale, sfiora ormai il 100 per cento del Pil (contro il 144 del Bel Paese). Sarà destinato, almeno nell’immediato, ad aumentare. Graverà quindi soprattutto sulle nuove generazioni, in proporzione alla loro speranza di vita. Peserà di più su quelle longeve che, tuttavia, potranno beneficiare, per un più lungo periodo, di un ambiente reso vivibile, grazie agli interventi realizzati. Forse un buon compromesso che evita la falsa alternativa tra le azioni contro i beni culturali dei vari “Just Stop Oil” o di “Ultima generazione”, e lo stracciarsi le vesti di fronte all’inevitabile ripetersi del prossimo disastro ambientale.