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Perché bisogna ripensare la governance dell’euro

L'intervento dell'economista Giuseppe Capuano.

 

Con l’inizio del nuovo anno saremo obbligati a leggere le scelte di politica economica perseguite in Europa negli ultimi decenni con le lenti di chi ha vissuto drammaticamente gli avvenimenti sanitari ed economici del biennio 2020-2021.

A tal proposito sia il “milieu” degli economisti accademici e non che della politica (non ultimi gli argomenti in agenda dei recenti incontri avuti dal Presidente Draghi prima con il Presidente francese Emmanuel Macron e poi con il neo Cancelliere tedesco Olaf Scholz) hanno preso atto della necessità di tornare a discutere su proposte di miglioramento della governance dell’euro. Una riflessione che dovrà tenere presente che l’economia non è una scienza esatta e che una ricetta economica corretta e necessaria in un determinata fase congiunturale (ad esempio alla fine degli anni ottanta – primi anni novanta quando fu pensata e concordata l’attuale governance dell’euro) può essere errata e dannosa in una altra fase congiunturale come quella che stiamo vivendo a causa della crisi pandemica. La conclusione logica è che non esistono ricette economiche valide per tutte le stagioni.

I presupposti economici che hanno portato all’introduzione dell’euro, sicuramente un evento storico per l’Europa, non fanno eccezione a questa regola. Un evento non statico ma dinamico che deve essere visto come una tappa di un lungo cammino iniziato nel secondo dopoguerra, e si spera, possa concludersi con la costituzione degli Stati Uniti d’Europa.

Detto ciò, dopo la modalità “germanocentrica” seguita nella costruzione dell’euro (BCE come Bundesbank, euro forte come marco tedesco, approccio “ragionieristico” ai bilanci pubblici; stabilità dei prezzi come unico obiettivo della politica monetaria, etc.), il problema è stato negli anni l’attuazione di scelte di politica economica che hanno tenuto conto solo di una maggiore creazione di ricchezza in alcune aree forti del continente e non di una sua più corretta redistribuzione, anche nelle aree più deboli. Questi temi legati all’introduzione della moneta unica non sono stati sempre al centro del dibattito politico, e spesso trascurati, e ciò ha minato la stessa sostenibilità della moneta unica per alcuni Paesi europei (vedi crisi dei debiti sovrani per i cosiddetti Paesi PIGS).

I punti deboli di quelle scelte, possono essere riassunti nel modo seguente:

  • furono sottovalutati i costi economico-sociali di medio lungo periodo che i Paesi membri, in particolare quelli mediterranei, hanno dovuto sostenere per l’ingresso prima e la permanenza poi, nell’UEM;
  • fu trascurata la presenza di forti squilibri regionali (sia in termini di Pil pro-capite che di tassi di disoccupazione) e di tassi di crescita differenziati nell’Unione europea con l’effetto di rendere più fragile, sin dall’inizio, la costituzione e il mantenimento dell’Unione monetaria;
  • gli strumenti utilizzati per la riduzione degli squilibri e quindi per il conseguimento dei criteri di Maastricht, a partire dal 1993, sono stati del tutto inadeguati, in quanto si sono imposti dei parametri di convergenza meramente nominali e finanziari, trascurando del tutto quelli di natura «reale»;
  • la conseguenza di tutto ciò fu il raggiungimento di una convergenza di breve periodo e non una coesione economica di lungo periodo (shock asimmetrici nei Paesi a maggiore concentrazione di aree deboli e/o depresse come l’Italia, Grecia, Spagna e Portogallo),

in quanto l’assenza della seconda ha minato in partenza la durata della prima: in pratica la filosofia della stabilità finanziaria (la sciagurata applicazione delle ricette dettate dalla teoria della “austerità espansiva”) ha prevalso su quella dello sviluppo;

  • le sole forze del mercato, tanto richiamate, sono state insufficienti e/o inadeguate, partendo da una situazione di squilibrio, a riportare l’economia su di un percorso di sviluppo più equilibrato. Anzi i differenziali di crescita tra aree forti e aree deboli sono aumentati in assenza di importanti interventi «esterni».

Inoltre, l’introduzione dell’euro è stata costruita su politiche economiche fondate su di un eccesso di virtù sia di bilancio (rispetto di un rapporto deficit/ Pil uguale o inferiore al 3% e di un rapporto debito pubblico PIL uguale o inferiore al 60%) che monetaria (mantenimento dell’inflazione entro un target del 2%), che hanno portato a considerare i bassi tassi di crescita del PIL, dei tassi di interesse e dell’inflazione e gli alti tassi di disoccupazione come un passaggio obbligato verso la costruzione dell’Unione Economica e Monetaria. Con una concezione “classica” del ruolo del bilancio dello Stato in economia, relegato a mero gestore della cosa pubblica e con nessuna funzione stabilizzatrice e/o anticiclica.

Una impostazione di politica economica che ha prodotto degli effetti economici, in particolare nei Paesi del Sud dell’Ue, molto negativi.

La crisi post pandemica, quindi,  rende necessaria e attuale una profonda riflessione su quanto approvato e applicato negli ultimi trent’anni dalla politica dell’Unione europea e dei suoi Stati membri.

Dal mio recente libro “COVIDOMICS” riprendo alcuni elementi e suggerimenti che potrebbero tornare utili al dibattito sia accademico che politico che nei prossimi mesi sarà probabilmente promosso su questi temi.

In relazione alla modifica “strutturale” della governance dell’euro gli spunti salienti del mio ragionamento potrebbero essere sintetizzati in quattro punti:

  • Istituzione di una Politica Fiscale Europea (PFE) e di un Bilancio federale

L’istituzione di una politica fiscale comune, che non sia la sommatoria delle politiche fiscali dei Paesi membri, che abolisca il “dumping fiscale” praticato da alcuni Paesi membri (ad esempio Irlanda, Olanda e Lussemburgo) e, in prospettiva, istituisca un bilancio «federale» europeo sul modello statunitense, che favorisca la riduzione della pressione fiscale e un aumento degli investimenti con delle risorse proprie che possano finanziare un bilancio unionale pari al 4-5% del PIL, rendendo permanente l’approccio “Nex Generation EU”. Un bilancio Ue che oggi rappresenta solo circa l’1% del PIL europeo (PIL pari a circa 18.495 miliardi di dollari) rispetto a circa il 20% del bilancio federale USA sul PIL statunitense (PIL pari a circa 17.418 miliardi di dollari).

  • Nomina di un Ministro delle finanze europeo

La nomina di un “Ministro delle finanze europeo” che gestisca la politica fiscale comune e il bilancio comunitario, in modo da consentire anche l’eliminazione graduale dei parametri di bilancio (un fragile e dannoso surrogato di policy) che hanno colmato “impropriamente” una lacuna di governance.

  • Modifica dello Statuto della BCE

Il riequilibrio dei poteri in materia monetaria della Banca centrale europea, con la creazione di un «organismo politico» per la gestione della politica economica dell’UE e il cambiamento dello statuto della BCE sul modello FED: non solo salvaguardare l’andamento dell’inflazione (target al 2%) ma anche avere come obiettivo crescita e sviluppo. Infatti la volontà del legislatore comunitario dell’epoca, oltre a dare la giusta autonomia alla BCE nei confronti delle autorità politiche, come previsto all’art. 105 del Trattato di Maastricht, fu quella dell’esclusivo mantenimento della stabilità dei prezzi che è per la funzione monetaria primario e prioritario a qualsiasi altro obiettivo perseguibile attraverso il governo della liquidità. Un approccio che nel medio-lungo periodo limita enormemente le potenzialità di intervento della BCE e si rileva controproducente allo stesso conseguimento dell’obiettivo.

4) Graduale rimodulazione dei parametri di Maastricht

Se introdotte suddette innovazioni di governance sarebbe possibile, e solo in quel caso, rivedere la visione rigida/statica e «ragionieristica» dei parametri e incominciare a pensare a una loro progressiva rimodulazione e successiva, graduale eliminazione secondo un approccio dinamico come vuole l’economia. Infatti, non è possibile stabilire per legge (il Trattato di Maastricht) dei parametri fissi nel tempo che probabilmente rispondevano alla situazione economica del tempo ma che ormai risultano essere obsoleti e non più rispondenti alle attuali esigenze dell’economia del nostro tempo, in particolare per il post crisi COVID 19. A tal proposito la “derogata” ai parametri prevista nel biennio 2020-2022 dovrà essere necessariamente estesa anche al biennio 2022-23 al fine di supportare la ripresa economica.

Più in generale, si consideri che nel periodo storico nel quale furono concepiti i parametri (anni ottanta) la crescita del PIL in Europa ed in Italia era molto superiore agli attuali tassi (attualmente si parla addirittura di “stagnazione secolare”), i processi di globalizzazione non erano ancora iniziati, l’era di internet era solo agli albori e si ragionava ancora con la dicotomia Est-Ovest. Una altra era, un altro mondo.

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