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Verisem

Perché ChemChina è stata stoppata su Verisem

Cosa comporta l'utilizzo del golden power per bloccare l'acquisizione delle società italiane del gruppo Verisem. L'articolo di Marcello Clarich, professore ordinario di Diritto amministrativo, e Giuliana Marra, cultore della materia, per DB.

Non è facile per il giudice amministrativo prendere le misure con il cosiddetto golden power. Emblematica in questo senso è una recente sentenza del TAR Lazio che ha confermato il veto del Governo su una delle operazioni societarie più importanti degli ultimi anni in ambito agroalimentare.

La controversia decisa con la sentenza n. 4488/2022 riguarda un decreto di qualche mese fa con cui il Governo italiano ha esercitato il golden power nella forma più intrusiva del veto assoluto. Ha infatti bloccato l’acquisizione delle società italiane del gruppo Verisem da parte di Syngenta Crop Protection AG (di seguito anche “Syngenta”) del valore di circa 200 milioni di euro.

Syngenta, azienda svizzera leader di settore a livello mondiale, è controllata da ChemChina, una multinazionale pubblica cinese che opera in diversi settori economici (immobiliare, petrolchimico, agrochimico, sementi, ecc.).

Il golden power esercitato nei confronti dell’azienda svizzera è previsto da una decina d’anni (d.l. n. 21/2012) ed è stato via via perfezionato ed esteso. Ed è la prima volta che viene applicato nel settore agroalimentare (sementiero).

Si tratta di un’arma potente, prevista in molti Paesi europei, che segna un nuovo interventismo statale nell’economia a tutela di interessi nazionali strategici. Esso consente infatti una limitazione ai principi europei della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali per la protezione di asset strategici. Il golden power costituisce in questa fase storica una risposta alla “deglobalizzazione” e alla contrapposizione tra opposte visioni del mondo tra i principali attori sulla scena internazionale.

Il punto più critico è che la normativa sul golden power fa ricorso a concetti elastici sia per definirne l’ambito di applicazione, sia per stabilirne i presupposti e i contenuti concreti. Espressioni come attività economiche “di rilevanza strategica”, approvvigionamento di fattori produttivi “critici”, “minaccia di grave pregiudizio agli interessi essenziali dello Stato” lasciano infatti ampi spazi di valutazione. Definire casistiche precise ed esaustive sarebbe impossibile in presenza di situazioni assai variegate. Ne soffre dunque il principio di legalità sacrificando le aspettative di certezza degli operatori di mercato. Le imprese sono in un certo senso in balia di valutazioni opinabili, almeno in alcuni casi, dei governi.

In questo contesto si inserisce la sentenza del TAR Lazio che fa chiarezza sulla natura dei poteri speciali in questione, sul procedimento applicativo e sul conseguente sindacato giurisdizionale.

In primo luogo, la sentenza, respinge la censura legata alla mancata garanzia del contraddittorio non essendo stata effettuata la cosiddetta comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza che consente all’interessato un’ultima replica (art. 10-bis della legge n. 241/1990). La “notifica” preventiva dell’operazione alla Presidenza del consiglio non è infatti equiparabile a una “istanza” che dà avvio a un procedimento amministrativo. La notifica costituisce invece per l’impresa solo un obbligo funzionale all’esercizio dei poteri di controllo spettanti allo Stato.

In secondo luogo, secondo il TAR la decisione dello Stato di esercitare o meno i poteri speciali, attraverso l’imposizione di “prescrizioni”, “condizioni” ovvero opponendosi del tutto all’operazione, si connota per una “amplissima discrezionalità”, in ragione della natura degli interessi tutelati. La scelta di esercitare il golden power è espressione di “alta amministrazione”, come tale sindacabile dal giudice amministrativo solo ove affetta da “manifesta illogicità”.

In terzo luogo, non è rilevante la difformità tra la decisione finale adottata dal Governo rispetto alla proposta emersa dell’organo tecnico (il cd. gruppo di coordinamento previsto e disciplinato dal DPCM 6 agosto 2014): quella cioè di autorizzare l’operazione con prescrizioni, piuttosto che di vietarla del tutto.

Il compito del gruppo di coordinamento è solo quello di raccogliere gli elementi istruttori e di valutazione tecnica da sottoporre al Consiglio dei ministri. Quest’ultimo, dunque, secondo il TAR, non è tenuto ad adottare una motivazione specifica nel caso in cui si determini in senso diverso rispetto a quanto proposto in sede istruttoria.

In definitiva, la sentenza ha un approccio piuttosto deferente nei confronti del decisore governativo.

Da un lato, infatti, il criterio della manifesta illogicità rende il sindacato giurisdizionale privo di mordente. Ciò, peraltro, in linea con quanto accade con tutti gli atti di alta amministrazione che si pongono a un gradino al di sotto degli atti politici sottratti a ogni tipo di controllo giudiziario. Tuttavia, nel caso di specie alcuni vizi sembravano avere carattere squisitamente fattuale. La ricorrente ha cioè negato di svolgere l’attività prevista dalla normativa applicata in materia di utilizzo di tecnologie e di raccolta di dati e ciò, forse, avrebbe meritato un approfondimento più specifico.

Dall’altro lato, la sentenza depotenzia alcuni presidi procedurali. In particolare, quanto guadagnato in termini di garanzie, anche attraverso l’istituzione di un organo tecnico istruttorio ad hoc, viene superato dal riconoscimento di un’ampia potestà decisoria del Governo. Del resto in altri paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti, queste decisioni sono considerate atti politici, legate come sono anche ad aspetti di politica estera e di salvaguardia di interessi nazionali che nessun giudice potrebbe legittimamente sindacare.

Insomma, anche questa vicenda conferma come nel golden power sia difficile conciliare la libertà d’impresa con interessi che costituiscono il nocciolo della sovranità degli Stati. La prima è destinata, quasi inevitabilmente, a soccombere.

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