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Giappone

Altro che indice Nikkei: per tornare grande, il Giappone ha bisogno della natalità

Nonostante il forte rialzo dell'indice Nikkei, il Giappone non è tornato ai suoi tempi d'oro. L'economia calante si lega alla demografia declinante. L'analisi di Popolocrazia.

(Articolo pubblicato su Popolocrazia)

29 dicembre 1989. La Borsa giapponese segna il suo record: 38.915 punti. I listini azionari di Tokyo festeggiano in questo modo l’apice del boom economico nazionale post Seconda Guerra mondiale. Siamo nel pieno del “sogno giapponese”, l’idea che per il Sol Levante tutto sia possibile, anche diventare la prima economia del pianeta, superando gli Stati Uniti.

22 settembre 1989Paramount Pictures lancia nelle sale cinematografiche “Black Rain”, film d’azione del regista Ridley Scott, con attore protagonista Michael Douglas.

In una scena, l’ispettore di polizia nipponico Masahiro Matsumoto si rivolge sprezzante al detective statunitense Nick Concklin (Michael Douglas, per l’appunto) e gli dice:

Sono cresciuto con i vostri soldati. Eravate saggi a quel tempo. Oggi l’America è buona soltanto a fare musica e film. Noi costruiamo macchinari, noi plasmiamo il futuro.

In due righe di sceneggiatura, s’intravvede chiaramente come il “sogno giapponese” negli anni Ottanta del secolo scorso sia diventato per molti, dall’altra parte dell’Oceano Pacifico, “l’incubo americano”.

22 febbraio 2024. La settimana scorsa l’indice Nikkei ha superato i 39.000 punti per la prima volta nella storia, sgretolando il record di 34 anni prima. Eppure il “sogno giapponese” è finito da tempo. Quella di Tokyo è pur sempre un’economia di tutto rispetto, ma non incute più alcun timore reverenziale negli Stati Uniti o in altri colossi del pianeta. Lo scorso anno, addirittura, il Pil nipponico è sceso dal podio mondiale. Dopo due trimestri di crescita negativa, il Pil giapponese vale circa 4.200 miliardi di dollari americani, superato dalla Germania (4.400 miliardi), a notevole distanza da Cina (17.500 miliardi) e Stati Uniti (27.900 miliardi).

Perché quello giapponese non è più un “sogno”? La Borsa è un indicatore importante ma certo non l’unico per valutare lo stato di salute di un’economia industrializzata. Dunque, in cosa consisteva davvero il “sogno giapponese”? Lo spiega Luciano Segreto, dicente di Storia economica internazionale all’Università di Firenze, nel suo “L’economia mondiale dopo la guerra fredda” (Il Mulino):

Parecchi osservatori, nonostante la differenza di dimensioni ancora esistente tra l’economia americana e quella giapponese e di Pil pro capite tra i due paesi, pronosticavano che nel XXI secolo il Giappone sarebbe diventato la prima economia mondiale. Il paese, uscito semidistrutto dalla Seconda guerra mondiale, aveva intrapreso la strada di uno sviluppo economico, di molto accelerato durante gli anni Sessanta e Settanda, che lo portò a raggiungere rapidamente la terza posizione tra le economie mondiali, dietro solo agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica. Il tasso di crescita del Pil, fino al 1972 rimasto a lungo non lontano dal 10%, successivamente, nonostante la crisi petrolifera e il terremoto monetario seguito alla fine del sistema di Bretton Woods, si era stabilizzato attorno al 5%, risultando largamente superiore a quello americano o a quello europeo. In tal modo il Giappone continuò la sua lenta marcia di avvicinamento ai vertici dell’economia mondiale. Nella prima metà degli anni Ottanta, mentre quella americana era alle prese con una difficile ripresa, l’economia giapponese crebbe in media del 4% e nella seconda parte del decennio, pur con qualche incertezza, rimase stabilmente al di sopra del 3%.

Al di sotto di un andamento così scintillante, si era cominciata però a gonfiare una bolla immobiliare – e più in generale speculativa -, tutt’altro che frenata dalle scelte della Banca centrale, la cui fine improvvisa coinvolse l’intera economia. Nel 1990, subito dopo aver toccato il record di Borsa, il Giappone è investito da una crisi finanziaria che nell’immediato ha l’effetto di sgonfiare i listini (-15.000 punti solo nel 1990!). Nel medio-lungo periodo, quella crisi si trasforma in una inesorabile frenata della crescita nel Paese. Da qui l’espressione lost decades o “decenni perduti”.

Demografia declinante & economia calante. Correlazione non implica causalità, come si dice, ma a partire dagli anni Settanta sel secolo scorso qualcosa di importante succede anche nelle culle giapponesi.

Il tasso di fecondità totale del Giappone, cioè l’indicatore del numero medio di figli per donna, scende rapidamente e inesorabilmente sotto il livello del “tasso di sostituzione” che è pari a 2,1, cioè sotto quel livello minimo necessario a mantenere stabile una popolazione. (Un calo record che peraltro ha molte somiglianze con gli squilibri demografici italiani, ma di questo ci saranno altre occasioni per parlare). Il “sogno giapponese” non si interrompe per il crollo delle nascite, ma già dopo il primo decennio di stagnazione che segue alla crisi finanziaria ci si rende conto che proprio il crollo delle nascite rende più difficile per i Giapponesi svegliarsi dall’“incubo”.

Questa tabella è contenuta in uno studio del 2003 del Fondo Monetario Internazionale, a commento di quello che allora era ancora definito “il decennio perduto”, dunque declinato al singolare.

Cosa si evince?

Con il declino e l’invecchiamento della popolazione, si prevede che il livello del PIL reale diminuisca cumulativamente di circa il 20% (rispetto allo scenario di base) nel lungo periodo. Il calo del PIL si verifica soprattutto tra il 2025 e il 2075, quando i cambiamenti demografici sono più pronunciati. In termini di crescita, la crescita annuale del PIL si riduce di circa lo 0,5% all’anno in questo periodo di tempo, prima che l’economia si stabilizzi su un equilibrio di lungo periodo con un indice di dipendenza degli anziani permanentemente più alto.

Più dell’indice Nikkei, nel Giappone contemporaneo, potrà l’andamento delle nascite.

(Articolo pubblicato su Popolocrazia; ci si può iscrivere qui)

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