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Spesa Pensioni

Gianni De Michelis, le pensioni e le tensioni Psi-Dc

Grazie a Cazzola completo il racconto del lungimirante riformismo del compianto De Michelis anche in materia previdenziale. I Graffi di Damato

 

Grazie al comune amico Giuliano Cazzola, che ne ha scritto su Start Magazine di Michele Arnese, sono in grado di completare il racconto del lungimirante riformismo del compianto Gianni De Michelis anche in materia previdenziale.

Deluso ma evidentemente non domato dalla riunione della direzione del Psi in cui aveva raccolto insofferenza e scetticismo dopo avere riferito sulle condizioni critiche del sistema pensionistico, destinato a saltare in mancanza di interventi rapidi e duri, De Michelis predispose da ministro del Lavoro un disegno di legge. Trovò evidentemente presso il presidente del Consiglio Bettino Craxi l’attenzione che non aveva ricevuto nella riunione della direzione del partito, forse non svoltasi in quell’occasione, nel 1984, alla presenza del segretario. A sostituirlo negli adempimenti di partito era in quegli anni Claudio Martelli come vice segretario.

Informata del provvedimento, che avrebbe sicuramente comportato uno scontro con l’opposizione comunista non inferiore a quello svoltosi sui tagli anti-inflazionistici appena apportati alla scala mobile dei salari, la segreteria della Dc retta da Ciriaco De Mita ne bloccò il cammino. Innanzitutto reclamò un’iniziativa parlamentare, anziché governativa. In secondo luogo impose, in funzione “consociativa” secondo la valutazione condivisibile di Cazzola, che il progetto di legge venisse partorito da una commissione speciale. Che fu presieduta da Nino Cristofori, “sodale- ha scritto Cazzola- di Giulio Andreotti.” Di cui infatti sarebbe poi stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dal 1989 al 1992, diventando ministro del Lavoro nel primo governo di Giuliano Amato.

Alla presentazione della proposta di legge di riforma del sistema pensionistico il ministro De Michelis predispose emendamenti del governo per aumentarne il rigore, e prevedibilmente l’impopolarità. Ciò rallentò il percorso della legge sino a vanificarne l’esito col sopraggiunto scioglimento anticipato delle Camere, nel 1987.

Si pensò allora – qui termina il supplemento di racconto grazie a Cazzola e comincia la mia coda, diciamo così – che l’interruzione della legislatura, un anno prima del suo epilogo ordinario, fosse stata provocata dall’insofferenza di Ciriaco De Mita verso Craxi, pubblicamente definito “inaffidabile” per non avere consentito nel 1986 la cosiddetta e famosa “staffetta” con Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, reclamata dal segretario democristiano.

Si pensò anche, sull’onda delle cronache quotidiane e retroscena annessi e connessi, che De Mita coniugasse quell’insofferenza anche con la paura di dovere affrontare due referendum sostenuti da Craxi, già indetti per la primavera ed entrambi indigesti alla sinistra democristiana: contro l’energia nucleare, ancor più temuta dopo l’esplosione della centrale di Cernobyl, nell’Unione Sovietica, e per la responsabilità civile dei magistrati. Alle cui prerogative già allora non si poteva guardare per riformarle senza rischiare la fine politica.

I due referendum saltarono in effetti con la fine anticipata della legislatura, cui si potette arrivare peraltro solo con la disinvolta, inusuale decisione della Dc di non votare la fiducia al governo monocolore democristiano allestito proprio col recondito proposito delle elezioni anzitempo dal presidente uscente del Senato Amintore Fanfani. Cui invece i socialisti votarono la fiducia, in presenza peraltro di importanti adempimenti internazionali del governo, perché fossero evidenti le responsabilità del ricorso anticipato alle urne.

Dopo il voto potette subentrare a quello di Fanfani un altro governo presieduto da un democristiano, nella fattispecie Giovanni Goria, in attesa che maturassero le condizioni per un approdo di De Mita a Palazzo Chigi, solo alla condizione posta da Craxi di fare svolgere i referendum contestati già nell’autunno del 1987, senza aspettare la primavera dell’anno successivo. E furono entrambi vinti dai promotori, anche se -bisogna dirlo con franchezza- Craxi poi consentì che la responsabilità civile dei magistrati, pur passata a grande maggioranza degli elettori, fosse sostanzialmente vanificata da una legge ordinaria poi scritta in pratica a quattro mani in pochi mesi dal guardasigilli socialista Giuliano Vassalli e dal magistrato di turno. Fu una legge imposta dalla necessità di disciplinare il vuoto creatosi nel codice con la soppressione referendaria della norma di ferrea tutela delle toghe. Essa fu promulgata, guarda caso, nello stesso giorno in cui si insediò il primo e unico governo di De Mita, riuscito finalmente a metà aprile del 1988 ad approdare a Palazzo Chigi, sia pure per rimanervi soltanto poco più di un anno.

Ora sappiamo che dietro le quinte, nascosta dal clamore degli scontri sulla cosiddetta staffetta e sui referendum, aveva lavorato come una talpa contro la fine ordinaria della legislatura contrassegnata dai due governi Craxi, e per le elezioni anticipate del 1987, la paura di una riforma del sistema delle pensioni avvertita insieme dalla Dc e dall’opposizione comunista. Alla cui valutazione della mancanza di alternative allo scioglimento delle Camere l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga volle ricorrere conferendo un incarico esplorativo, durante la crisi, alla presidente di Montecitorio Nilde Jotti. E lo sappiamo grazie alla rilettura degli avvenimenti consentitaci dal ricordo di Gianni De Michelis.

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