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Fatti, numeri e frottole sul Pnrr post Draghi

Che cosa cambia davvero per il Pnrr dopo la caduta del governo Draghi. L’analisi di Giuseppe Liturri

 

Dopo una settimana di contumelie e pianti disperati sulle sorti del Paese orfano del governo di Mario Draghi, quando giovedì pomeriggio una circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri ha dettagliato il perimetro degli impegni del governo dimissionario, abbiamo avuto evidenza che le dieci piaghe d’Egitto prefigurate da molti non si abbatteranno sul nostro Paese. Al termine del Consiglio dei ministri Draghi ha ribadito che si “va avanti col PNRR, favoriamo chi ci succederà”. Queste parole di Draghi, ora che il suo governo è ufficialmente dimissionario e in carica solo per il “disbrigo degli affari correnti”, dovrebbero essere sufficienti a placare i lamenti delle “vedove del PNRR”, secondo cui “sono a rischio 46 miliardi”, come ha titolato proprio giovedì il Sole 24 Ore, riferendosi alla rata del primo e secondo semestre 2022. C’è anche chi si è spinto oltre, paventando il rischio di restituzione dei 46 miliardi incassati finora a titolo di prefinanziamento e prima rata.

Dobbiamo consolare chi finora si è stracciato le vesti, perché il rischio di “perdere soldi” (qualsiasi cosa significhi) è modesto. Nel caso specifico ricordato dal Sole 24 Ore, non si vede come possa essere a rischio anche la rata richiesta pochi giorni fa, in cui il governo Draghi ha attestato di aver conseguito 45 obiettivi. A meno di voler ipotizzare che Draghi abbia dichiarato il falso e che la Commissione potrebbe bocciare la nostra richiesta. O, peggio, che la Commissione – che ha due mesi a disposizione per emettere la decisione di pagamento – potrebbe essere particolarmente severa nella valutazione del nostro rendiconto, in presenza di un nuovo governo “sgradito”. In ogni caso, Draghi ci ha detto in modo chiaro che non è vero che “la macchina legislativa ed amministrativa è ko”, come affermato dal Sole.

Premesso che la tornata elettorale potrebbe restituirci un nuovo governo nei pieni poteri entro la fine di ottobre, il regolamento che disciplina il RRF contiene numerose previsioni proprio per situazioni simili. In prima battuta, l’articolo 21 consente che in presenza di “circostanze oggettive” – e cosa c’è di più oggettivo di una consultazione elettorale? – lo Stato membro richieda alla Commissione, con una proposta motivata, di modificare o sostituire il Piano nazionale. Ciò non è indolore, ma richiederebbe la ripetizione della stessa trafila autorizzativa della primavera 2021, quando passarono circa 50 giorni dalla presentazione all’approvazione del piano da parte della Commissione. In ogni caso, nulla di trascendentale. Ma c’è anche l’articolo 24 che al comma 9 e 10 contempla altri due casi. È infatti nei poteri della Commissione – decorsi almeno 18 mesi dall’approvazione del Piano – di procedere alla risoluzione dell’accordo con cui si eroga sia il sussidio che il finanziamento, solo “in assenza di progressi concreti” nel conseguimento di obiettivi e traguardi. Quindi esiste un “periodo di grazia” di 18 mesi durante i quali, per qualsivoglia motivo uno Stato membro può rallentare o fermarsi. In ogni caso, allo Stato coinvolto sono concessi altri due mesi per le proprie osservazioni. Oggetto di restituzione potrebbe essere solo il prefinanziamento, non anche le rate già incassate a fronte di obiettivi e traguardi conseguiti. La Commissione prevede anche in “circostanze eccezionali” il ritardo della decisione di erogazione dei sussidi per non oltre 90 giorni. Va da sé che, avendo l’Italia presentato già la richiesta di ben due rate, non si veda come in pochi mesi ci si possa accusare di mancanza di “progressi concreti”. Il RRF è stato costruito ben sapendo che le vicende elettorali degli Stati membri avrebbero potuto rallentare l’avanzamento dei piani.

Chi si preoccupa dei ritardi futuri non considera poi che siamo già in ritardo nell’attuazione degli obiettivi previsti dal Fondo Nazionale Complementare di 37 miliardi che affianca il PNRR e che è finanziato interamente col bilancio statale. A marzo 2022 ci sono 5 obiettivi su 25 non completati e nessuno si è scandalizzato.

Parlare del RRF senza averne mai letto le centinaia di pagine che lo disciplinano, porta ad omettere che la decisione di esecuzione del Consiglio del luglio 2021 che approva il piano italiano riporta che tutti gli obiettivi ed i traguardi previsti per i dieci semestri fino al giugno 2026, sono collegati ad un “calendario indicativo” per il loro conseguimento. Non esiste alcuna scadenza perentoria. Prova ne è che l’Olanda, rimasta a lungo senza governo, ha presentato il proprio piano nazionale solo l’8 luglio scorso, ben 15 mesi dopo la prima data utile. A conferma di ciò, ad oggi solo 6 Paesi (tra cui l’Italia) hanno presentato la richiesta della prima rata a dicembre 2021 e nessuno dei tanti Stati membri rimasti indietro ha perso nulla.

In ogni caso il governo Draghi, così come confermato dallo stesso Presidente, può e deve continuare ad operare perché il concetto di “disbrigo degli affari correnti” è molto ampio e, secondo la definizione dell’illustre giurista Pietro Rescigno, consente al governo di “compiere gli atti dovuti (obbligatori) e tutti quelli la cui proroga comporterebbe un apprezzabile danno dello Stato, mentre dovrà astenersi, sul piano della correttezza politica, da tutti quegli atti discrezionali che possono essere rinviati al futuro governo senza apprezzabile danno”. Come abbiamo visto, Draghi non si è fatto pregare ed ha interpretato in modo molto estensivo il concetto di affari correnti.

È pur vero che sul punto i precedenti non mancano e valga per tutti quello del governo di Romano Prodi che, fu sfiduciato il 9 ottobre 1998 e benché dimissionario pochi giorni dopo in Consiglio dei ministri si deliberò la concessione delle basi militari italiane alla Nato per una eventuale crisi in Kosovo, che poi sfociò nell’attacco a Belgrado.

Pur avendo esposto in passato numerosi argomenti non tanto contro il PNRR, ma contro la sua onerosa modalità di finanziamento che è il RRF (dispositivo per la ripresa e la resilienza), oggi non possiamo che prendere atto esistono tutti gli strumenti che consentono il proseguimento dell’esecuzione del piano, anche a governo dimissionario, e che il confuso agitarsi nei giorni che hanno preceduto le dimissioni di Draghi ora può essere archiviato nel fascicolo delle chiacchiere, che se le porta via il vento.

(versione integrata e ampliata di un articolo pubblicato sul quotidiano La Verità)

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