Skip to content

Fatti e frottole su dazi, energia e Cina

Cosa si dice e cosa non si dice su dazi, energia, Cina e non solo. L’analisi di Mario Seminerio, curatore del blog Phastidio

(Fatti e frottole su dazi, energia e Cina. Il post di Mario Seminerio tratto da Phastidio.net)

Intervenendo all’assemblea di Confindustria, tenutasi quest’anno a Bologna, il/lo/la/id presidente del consiglio, Giorgia Meloni, ha reiterato che “il declino non è un destino”, che l’Italia malgrado tutto resta attrattiva e resiliente, al punto da lanciare il claim “Make in Italy” rivolto ai produttori internazionali. Senza negare le difficoltà, Meloni ha risposto al grido di dolore del presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, circa l’elevato costo dell’energia nel nostro paese. Che, oggettivamente, rappresenta un ostacolo all’investimento diretto estero. Uno dei maggiori ostacoli, diremmo, assieme alla burocrazia pubblica.

SALASSO ENERGETICO

E quindi, che fare per il costo dell’energia? Meloni ha segnalato che, da inizio legislatura, il suo governo ha già spesato interventi di riduzione dei costi energetici per 60 miliardi di euro ma che

Ora è evidente che continuare a cercare di tamponare spendendo soldi pubblici non può essere la soluzione e per questo abbiamo accompagnato le risorse con diversi interventi alcuni dei quali rispondono anche alle necessità richiamate proprio dalla Confindustria.

Diciamo che, come abbiamo visto, il peso degli oneri di sistema sul costo dell’energia è la vera pietra al collo del paese. Per alleggerire quegli oneri in modo permanente, portandoli almeno alla media Ue, occorre destinarvi risorse su base strutturale. Cioè, smettere di fare cassa con l’energia e trovare le risorse altrove. Dove, non si sa. Perché non c’è solo lo spread del Btp sul Bund che ci dà soddisfazioni, anche se ultimamente le dà a tutti i paesi periferici europei, a dirla tutta, ma c’è anche un assai temibile spread energetico da contenere.

Meloni ha citato, tra le misure di sollievo, la Energy Release e la Gas Release, oltre ai “contratti pluriennali a prezzo fisso di acquisto di energia prodotta da fonti rinnovabili, dove il corrispettivo viene stabilito tra le parti e riflette i reali costi di produzione per ciascuna tecnologia”, che per Meloni rappresenterebbe già il leggendario “disaccoppiamento”. Non poteva mancare un riferimento alla spekulazione con tante zeta, con la promessa di un’analisi per verificare che il prezzo unico nazionale non sia manipolato. E va bene.

Oltre al nucleare, dove Meloni ribadisce che siamo in attesa dei “mini reattori sicuri e puliti, che possano consentirci di avere maggiore sicurezza energetica a costi sensibilmente inferiori agli attuali”. Quelli che, come noto, Orsini vorrebbe nei parcheggi delle aziende, non è chiaro pagati da chi, se solo quei reattori esistessero. Vorrei tuttavia chiedere al premier se è sicura dei costi, che al momento nessuno conosce, ma me ne asterrò.

E comunque, anche se è nata NuclItalia, società creata da Enel, Leonardo e Ansaldo Energia e che si occuperà dello studio di tecnologie nucleari di nuova generazione, Meloni invita Orsini a essere propositivo perché “siamo sempre aperti a suggerimenti, idee nuove, proposte serie. È un tema sul quale c’è bisogno della collaborazione di tutte le persone di buona volontà perché è essenziale per la nostra competitività. La porta del Governo su questa materia è e rimane sempre aperta”.

ORSINI A DEFICIT

Mi pare un’ottima idea, quella della cassetta dei suggerimenti. Io temo che in essa finiranno richieste di sussidi per ridurre il costo dell’energia, travestiti da “piano industriale straordinario”. Non a caso, Orsini ha fatto sapere che serve un piano triennale per l’industria del Paese da 8 miliardi l’anno per tre anni (ma sarebbe meglio cinque). Orsini chiede anche soldi anche all’Europa, in realtà all’Italia, nel senso di deroghe al patto di stabilità. Che ormai è morto, ucciso dal piano di riarmo. Quindi, morto per morto, penso intenda Orsini, meglio caricarlo anche di maggior deficit nazionale per l’industria.

Il presidente di Confindustria però finge di ignorare che il governo Meloni non ha inteso avvalersi del ReArm EU, non volendo fare deficit aggiuntivo, ritenuto non sostenibile. Ecco quindi che potrebbe verificarsi una convergenza di posizioni tra Palazzo Chigi e Viale dell’Astronomia sul “recupero” dei fondi PNRR non utilizzati. Che stanno rapidamente diventando la nuova cornucopia di tutti gli astinenti da deficit, assieme ai fondi di coesione. Quelli che, notoriamente, l’Italia non riesce a spendere. E non credo a causa esclusiva della iper-regolazione europea. Certo, meglio sarebbe dire “voi datece li sordi, a spenderli pensiamo noi”. Se non fosse che quei soldi sono di tutti i contribuenti europei, e quindi servono misure di protezione da abusi.

Io però non posso esimermi dal fare qualche considerazione assai venale: Confindustria chiede soldi ma non arriva a dire esplicitamente che li vorrebbe per ridurre il costo dell’energia, perché sa che ciò sarebbe improponibile. Ma è ovvio che il denaro è fungibile: pertanto, se arrivassero sussidi chiamati Industria ennepuntozero, ciò allevierebbe il dolore per il costo dell’energia. Ma è innegabile che questo sarà un percorso molto problematico.

Meloni torna poi sul concetto di “neutralità tecnologica”, che ormai è diventato il sarchiapone di governo e maggioranza, assieme alla critica alle “scelte ideologiche” che hanno consegnato intere filiere alla Cina. Temo che questo repertorio sia ormai logoro: nel senso che i cinesi hanno dimostrato di essere in grado di alluvionare il pianeta di veicoli elettrici, ibridi e anche a combustione interna. E pace che questo stia causando un massacro in Cina, dove la sovracapacità produttiva dell’automotive rischia di diventare la nuova bolla immobiliare. Una Evergrande su quattro ruote, in pratica. Prima di arrivare a quel punto, però, la Cina avrà colonizzato innumerevoli mercati esteri, inclusi quelli europei. Perché le auto sono mobili, non immobili.

Quindi, il ritornello sulla “neutralità tecnologica”, che il governo italiano è abituato a declinare in termini ad esempio di biocarburanti, è stato ampiamente superato dagli eventi. Anche se si arrivasse alla messa al bando dell’elettrico (per assurdo), l’industria europea si troverebbe a dover ammortizzare investimenti già effettuati e ad aver perso il primato nel termico, sotto la pressione cinese. Oltre a vedere la quota di mercato cinese dei costruttori europei inserita in una traiettoria potenzialmente letale.

Come dite? Basterebbe mettere dazi su tutte le auto cinesi, non solo quelle elettriche? Ma secondo voi, come mai la Ue non intende dare seguito alle richieste di Donald Trump di mettere dazi su tutto quello che è cinese? Forse perché, se così facesse, l’Europa subirebbe gravi danni al suo export in Cina, e verosimilmente accelererebbe l’estinzione dei suoi costruttori insediati laggiù? Ah, saperlo.

DAZI ASSAI INTERNI

Veniamo al refrain principale dell’esposizione meloniana: la Ue rimuova i dazi interni che si è autoimposta da anni.

Basti questo dato: secondo il Fondo Monetario Internazionale il costo medio per vendere bene tra gli Stati dell’Unione europea equivale a una tariffa di circa il 45% rispetto al 15% stimato per il commercio interno negli Stati Uniti. Per non parlare dei servizi dove la tariffa media stimata arriva al 110%. Non può essere sostenibile. Il rilancio del mercato unico europeo è quindi una priorità, perché chiaramente consentirebbe di mettere l’Europa anche a riparo da scelte protezionistiche di altre nazioni.

Qui Meloni finge di ignorare che i “dazi interni” alla Ue sono la risultante dei compromessi che portano i singoli stati nazionali, Italia compresa, a proteggere i propri produttori e le proprie corporazioni. Quindi, ci aspettiamo che il governo italiano non si limiti a citare statistiche del Fmi ma indichi in modo puntuale dove e come intervenire. Magari facendo anche i “compiti a casa”, visto che in l’Italia la parola “concorrenza” tende a causare shock anafilattici.

Come rimuovere, quindi, le “barriere interne” al nostro paese? Come mettere a gara le concessioni demaniali senza arrivare a dire che bisogna difendersi dalle “multinazionali straniere”? Come aumentare l’offerta e ridurre i costi del servizio di auto pubbliche? Come “evitare di evitare” la messa a gara delle concessioni idroelettriche? Come evitare di usare in modo grottescamente improprio lo strumento del Golden Power per ostacolare una banca italiana che ha la grave colpa di essersi messa di traverso rispetto ai disegni del governo? Anche qui: ah, saperlo. Però ci sono “le barriere interne alla Ue”, signora mia.

E ancora:

Non possiamo poi fingere di non vedere anche come ogni anno oltre 300 miliardi di euro di liquidità europea finiscano in investimenti extra UE, ed è la ragione per la quale consideriamo anche necessario completare rapidamente l’unione dei mercati di capitale.

Ah, questi leggendari 300 miliardi annui che volano ogni anno negli States! Tranquilli: se Trump riuscirà nel suo intento, sia a colpi di dazi che suicidando gli Stati Uniti dopo averli trasformati in una enorme repubblica delle banane, quei 300 miliardi non fuggiranno più. Perché cesseranno di esistere. Nel frattempo, noi continueremo a leggere sui nostri media nazionali che “il risparmio è questione di sicurezza nazionale” e che bisogna opporsi agli intermediari europei che cercano di rapire i nostri risparmiatori. L’Unione dei mercati dei capitali va benissimo agli italiani purché i “nostri” capitali non siano resi contendibili. Voi capite che, con questa schizofrenia, non si va da nessuna parte. E basta barriere interne, perdio.

Torna su