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Ex Ilva

Vi spiego chi ha ucciso davvero l’ex Ilva

Lo stabilimento ex Ilva di Taranto non sta tirando le cuoia a causa di una crisi produttiva o di mercato; è stato assassinato dalla magistratura pugliese. L'analisi di Giuliano Cazzola.

Il comunicato di palazzo Chigi risuona come una campana a morto: “Nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi con ArcelorMittal sull’ex Ilva di Taranto, la delegazione del Governo ha proposto ai vertici dell’azienda la sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale, pari a 320 milioni di euro, così da concorrere ad aumentare al 66% la partecipazione del socio pubblico Invitalia, unitamente a quanto necessario per garantire la continuità produttiva. Il Governo ha preso atto della indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza, e ha incaricato Invitalia di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale”.

Quali saranno queste “decisioni conseguenti”? Sarà lo Stato a farsi carico dell’intero aumento di capitale necessario. “Hic Rhodus, hic salta”. Non ci sono alternative. Quando in un’operazione finanziaria si sono sprecate tante preziose risorse si è sempre indotti a investire ancora per salvare il salvabile, anche perché ciò che si impiegato inutilmente non si recupera. Il risultato, tuttavia, sarà assai deludente: lo Stato riacquisirà – tramite Invitalia – gli stabilimenti che aveva venduto alla famiglia Riva nel 1995, ma in condizioni peggiori.

BREVE STORIA DELL’EX ILVA

Quando nel 1995 la famiglia Riva fu invitata ad acquistare l’ex Ilva, lo stabilimento perdeva 4 miliardi di lire l’anno. La nuova proprietà dal 1995 al 2012 effettuò investimenti per 4,5 miliardi di euro di cui 1,2 per misure di carattere ambientale. Queste operazioni sono state confermate da una sentenza del 2019 del Tribunale di Milano, in primo grado e in appello, nel procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta nei confronti dei fratelli Riva (poi assolti). Nessuno è mai stato in grado di provare che l’ex Ilva abbia violato le leggi sulla tutela ambientale all’epoca vigenti. Sarebbe l’ora che, nell’interesse della giustizia prima di tutti gli altri aspetti, la maggioranza meno ricattabile sul piano della retorica ambientalista volesse vederci chiaro in quella tragedia industriale annunciata. Anziché perdere tempo con una Commissione d’indagine sulla gestione del Covid-19 (che è strumentale a fini politici) se ne costituisca una bicamerale per andare a fondo sul caso ex Ilva. Bisognerà pure arrivare dire la verità!

LE RESPONSABILITÀ DELLA MAGISTRATURA TARANTINA E DEI SINDACATI

Lo stabilimento ex Ilva di Taranto non sta tirando le cuoia a causa di una crisi produttiva o di mercato; non era un’impresa avviata al fallimento. Se vogliamo dare un nome a quella vicenda potremmo coniare una nuova fattispecie di reato: procurato disastro industriale. Perché quell’impianto è stato coscientemente, premeditatamente e volontariamente assassinato da una congiura della magistratura tarantina in complicità – su mandato delle lobbies ambientaliste – e d’intesa con ben individuate istituzioni e forze politiche locali e nazionali.

E i sindacati? Hanno subito (e in parte condiviso) quel disegno criminoso perché incapaci di sottrarsi alla gogna del “politicamente corretto” ecologista e di opporsi alle toghe che brandivano sfacciatamente quel ricatto in spregio di tutti i provvedimenti adattati dai vari Governi che hanno cercato di evitare la catastrofe.

“La sicurezza viene prima del profitto”, tuonava Maurizio Landini con la solita sicumera, in una intervista alla Stampa (quando mai si era visto prima un dirigente sindacale assistere impotente all’assassinio di uno stabilimento e di un gruppo siderurgico?). “Noi della Cgil ci siamo costituiti parte civile di questo processo, abbiamo sempre pensato che la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini venga prima del profitto e del mercato. E abbiamo sempre denunciato ciò che l’azienda dei Riva non aveva fatto, le responsabilità su troppi ritardi e furbizie”.

Lo smantellamento per via giudiziaria iniziò nel 2012, con una serie di incursioni della Procura tarantina che – paradossalmente – in nome del risanamento ambientale, e di intesa con le autorità politiche, ha fatto di tutto – dopo il sequestro dello stabilimento e dei prodotti finiti come prova del reato – per impedire anche la realizzazione delle misure di volta in volta adottate per rendere più sostenibile la produzione (come nel caso della copertura dei parchi minerali e fossili). Uno stabilimento siderurgico al pari di ogni altra attività produttiva non è in grado di trasformarsi in un’enorme serra fiorita, ma è tenuto a rispettare le norme di volta in volta vigenti in materia di sicurezza del lavoro e di salvaguardia dell’ambiente. Le tecnologie di produzione industriale nell’Ue sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale non possono non essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, di risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi. Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere considerati in regola.

Per comprendere questo fondamentale concetto, messo in discussione a Taranto, basta ricordare che nell’industria automobilistica europea il cambiamento è proceduto per gradi sulla base di regole uniformi che divenivano di volta in volta non l’indicatore di una sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto, perché le imprese devono sapere come regolarsi – nel produrre e nell’investire – senza essere vittime di procure che di punto in bianco, con criteri del tutto discrezionali, impongono ad un’acciaieria di adottare tecnologie cervellotiche, a cui non sono tenute le aziende concorrenti e che appartengono ancora al novero delle buone intenzioni. La Corte d’Assise di Taranto si rifiutò di accettare questa logica. Il pm lo disse esplicitamente: “Ma come facciamo a rispondere alla mamma che ha perso il bambino che i limiti erano in regola?”. Furono proprio le condanne inflitte all’ex Governatore della Puglia Nichi Vendola e al prof. Giorgio Assennato, ex direttore dell’Agenzia regionale dell’ambiente, a rendere palese l’arbitrio che hanno sorretto le indagini e la sentenza della Corte. Nichi Vendola, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, avrebbe concusso in modo implicito il prof. Assennato perché moderasse la valutazione di impatto ambientale dello stabilimento; ma anche il direttore fu condannato a 2 anni per favoreggiamento perché negò di aver ricevuto delle minacce da Vendola.

Anche il Consiglio di Stato riconobbe l’importanza strategica dello stabilimento e della produzione di acciaio, anche in vista del Pnrr e della mission della “decarbonizzazione”. E non esitò a valutare in termini di Pil e di occupazione la chiusura dell’opificio, tanto più che dopo che era tornato nell’orbita dello Stato (con le risorse dei cittadini).

LA GUERRA AD ARCELORMITTAL

L’altra vicenda poco chiara ha riguardato la guerra esplicita che a suo tempo venne dichiarata alla multinazionale franco-indiana ArcelorMittal che era subentrata nella gestione. L’avvenuta soppressione dello “scudo penale” non era certamente un problema secondario di cui, in quel contesto, qualsiasi “gestore” degli impianti avrebbe potuto fare a meno. “Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi – denunciò, allora, un bravo sindacalista come Marco Bentivogli – in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?”.

Ma per raccontare la storia del “massacro di Taranto” ci vorrebbe ben altro. Verrà un giorno – ci auguriamo – in cui questa storia si ritroverà negli atti di un “Tribunale di Norimberga” che faccia luce sulla cospirazione e i suoi protagonisti. Ma dove sorgeva la più grande acciaieria d’Europa ora bene che vada resterà uno stabilimento in grado di occupare meno della metà della manodopera operativa nel 2012, senza considerare l’indotto.

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