Manager e dirigenti in subbuglio sull’ex Ilva.
“Occorre uscire dal pantano”. E’ quanto auspicano i dirigenti tarantini aderenti a Federmanager, la federazione dei dirigenti di azienda, a proposito della situazione dell’ex Ilva di Taranto, ora Acciaierie d’Italia.
Per la delegazione tarantina di Federmanager Puglia, la questione dell’acciaieria, ora partecipata anche dallo Stato con Invitalia socio di AdI al 38 per cento (il restante 62 è nelle mani del privato ArcelorMittal Italia), “sembra la classica patata bollente che viene scansata dalle forze politiche. E stiamo parlando della fabbrica più importante del Paese, indispensabile per il settore meccanico e per lo sviluppo del quale negli anni passati sono state spese tante risorse pubbliche”.
LA TRANSIZIONE ALL’ACCIAIO GREEN DELL’EX ILVA
“Relativamente ai progetti di maggiore complessità come la decarbonizzazione con la produzione di Dri e utilizzo di forni fusori elettrici, questi – afferma Federmanager – rappresentano un futuro, un cambiamento ed una transizione verso l’acciaio “green” che nulla ha a che fare con una ripresa produttiva che riteniamo debba essere immediata”.
Per Federmanager, “è davvero un peccato che la fabbrica non riesca ancora a decollare in termini di produzione di acciaio e di risultati economici per avviare, finalmente, quella conversione che in molti Paesi si sta concretamente mettendo in moto. Siamo pertanto di fronte ad un controsenso industriale ad un vero e proprio paradosso”.
LE CRITICHE A INVITALIA E ARCELORMITTAL
”Le società Invitalia e ArcelorMittal, pur dando loro atto della difficile situazione della fabbrica (ancora oggi sotto sequestro), non sembrano raccogliere le reali necessità di questo complesso industriale, mostrano segnali di reciproca diffidenza per interessi, forse, contrastanti (il colosso ArcelorMittal è una società concorrente) e, fatto estremamente grave, perdurano da oltre un biennio azioni non coerenti con la normale funzionalità e gestione degli impianti in termini di carente manutenzione, gestione delle scorte e dei ricambi” dice Federmanager. Per la quale “cosi’ proseguendo, il risultato sarà solo quello di una perdita del patrimonio industriale che va gradualmente degradando con rischi di accidentalità, fermi impiantistici e disservizi ambientali. Certamente non è colpa dei dirigenti operativi delle varie aree produttive, ridotti ad esecutori di direttive imposte dal top management ed espropriati del loro ruolo e che in questa situazione devono essere tutelati per recuperare il loro ruolo”.
EMISSIONI “ENTRO I LIMITI PREVISTI DALLA LEGGE”
Per Federmanager, “oggi le emissioni inquinanti, per effetto degli interventi previsti ed eseguiti per le prescrizione Aia (Autorizzazione Integrale Ambientale), sono tutte entro i limiti previsti dalla legge come da puntuali rilevazioni Arpa. Ed è davvero poco comprensibile – rilevano i dirigenti di azienda – come in una struttura impiantistica come quella di Taranto, che ha tre altiforni disponibili, se ne utilizzino oggi solo due, pur avendo un terzo altoforno fermo e pronto a partire e che abbia pianificato produzioni per il corrente anno di solo 4 milioni di tonnellate di acciaio e per l’anno 2024 produzioni di 5 milioni di tonnellate di acciaio”. “La marcia con i tre altiforni, con una fabbrica ben funzionante, consente produzioni di circa 6 milioni di tonnellate” conclude Federmanager.
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IL COMUNICATO INTEGRALE DI FEDERMANAGER PUGLIA, DELEGAZIONE DI TARANTO
Sulla vicenda ex ILVA, che già dal dicembre 2020 è la nuova società partecipata dallo Stato ribattezzata Acciaieria d’Italia, è necessario fare chiarezza su alcune situazioni. Le cronache di questi giorni stanno riportando dichiarazioni confuse che non possono non allarmare chi opera nella fabbrica.
Siamo in una situazione di grande crisi e sembra esserci una volontà a non comprendersi e a non instaurare un dialogo propositivo, perché si possa in modo trasparente avviare le azioni necessarie. Non può la cattiva politica prevalere sugli interessi territoriali e nazionali e sulla vita dei lavoratori.
Vengono riportate notizie sulla possibilità di arrestare le produzioni dell’area a caldo in vista delle decarbonizzazioni e tutto ciò appare privo di ogni logica in una sana gestione industriale: di fatto è già ben noto che la fabbrica senza area a caldo non può funzionare e si rischia di azzerare un patrimonio industriale di enorme valore.
Oggi, le emissioni inquinanti, per effetto degli interventi previsti ed eseguiti per le prescrizione AIA (Autorizzazione Integrale Ambientale), sono tutte entro i limiti previsti dalla legge come da puntuali rilevazioni ARPA.
Ed è peraltro poco comprensibile come in una struttura impiantistica come quella di Taranto, che ha tre altiforni disponibili, se ne utilizzino oggi solo due – pur essendovi un terzo altoforno fermo e pronto a partire – e che si siano pianificate produzioni per il corrente anno di solo 4 milioni di tonnellate di acciaio e per il 2024 solo di 5 milioni di tonnellate . La marcia con i tre altiforni, con una fabbrica ben funzionante, consentirebbe produzioni di circa 6 milioni di tonnellate e questo sarebbe possibile da subito in quanto l’AIA autorizza tale produzione.
Si intravedono in questa carenza operativa responsabilità aziendali.
Si fa invece un gran ricorso alla cassa integrazione e si organizza una pianificazione del “non produrre”, non per crisi di mercato ma per motivazioni riferite in primo luogo alla crisi di liquidità che impedisce alla società di produrre, non potendo essa acquisire le necessarie materie prime e le attività di supporto per il funzionamento degli impianti. Ed è questo il vero problema da risolvere.
Nel frattempo, però, si presentano imminenti conversioni ‘green’ della fabbrica (che invece continuando così, non avrebbe alcun futuro) e si mettono in campo opzioni e visioni futuribili per la riduzione dei “gas serra” nella produzione di acciaio. Relativamente ai progetti di maggiore complessità come la decarbonizzazione con la produzione di DRI e utilizzo di forni elettrici, questi rappresentano un futuro, un cambiamento ed una transizione verso l’acciaio “green” che non può tuttavia essere utilizzata in alcun modo come pretesto per la contenuta produzione del presente e che, in realtà, nulla ha a che fare con una ripresa produttiva che riteniamo debba essere immediata.
Spiace pertanto rilevare con amarezza – da parte di chi in quella fabbrica ha lavorato con passione e professionalità – come essa non riesca ancora a decollare in termini di produzione e di risultati economici per avviare, finalmente, quella conversione che in molti Paesi si sta concretamente mettendo in moto. Siamo di fronte ad un controsenso industriale ad un vero e proprio paradosso.
Le società Invitalia e Arcelor Mittal, pur dando loro atto della difficile situazione della fabbrica (ancora oggi sotto sequestro con facoltà d’uso dell’area a caldo), non sembrano ancora cogliere sino in fondo le reali necessità di questo complesso industriale; mostrano segnali di reciproca diffidenza per interessi, forse, contrastanti (il colosso Arcelor Mittal, è di fatto una società concorrente) e, fatto estremamente grave, perdurano da oltre un biennio azioni non coerenti con la normale funzionalità e gestione degli impianti in termini di carente manutenzione, gestione delle scorte e dei ricambi.
Così proseguendo, il risultato sarà solo quello di una deperimento crescente del patrimonio industriale che va gradualmente degradando con rischi di accidentalità, fermi impiantistici e disservizi ambientali.
Tale situazione non è ascrivibile ai dirigenti operativi delle varie aree produttive, ridotti ad esecutori di direttive del top management ed espropriati di fatto del loro ruolo, i quali in tale situazione devono essere tutelati per recuperare sino in fondo funzioni e dignità professionale.
Occorre uscire dal “pantano”. Sembra la classica “patata bollente” che viene scansata dalle forze politiche. E stiamo parlando della fabbrica più importante del Paese per numero di addetti diretti, indispensabile per il settore meccanico e per il cui sviluppo negli anni passati sono state spese ingenti risorse pubbliche.
Come FEDERAZIONE DIRIGENTI pertanto richiediamo all’azienda e alle Autorità competenti un urgente riscontro per conoscere come sarà affrontato e risolto il problema delle ridotte produzioni nella fabbrica di Taranto.