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Giorgetti Meloni Manovra

Enel e non solo, tutte le ipocrisie sulle nomine del governo

Che cosa si dice e non si dice sulle nomine del governo società partecipate o controllate dallo Stato. Il recente caso Enel. Il commento di Luca Del Pozzo.

 

Com’era ampiamente prevedibile oltre che auspicabile, l’attivismo di azionisti e fondi che nelle scorse settimane, non senza qualche sgarbo istituzionale, hanno proposto liste di candidati per il consiglio di amministrazione di Enel alternative a quella del Mef, si è risolto con un nulla di fatto.

I PRECEDENTI SU ENEL

Più interessante sarà vedere se al prossimo giro di giostra, con un governo diverso da quello attuale, si ripeterà la stessa storia. Di certo andò diversamente nel 2014, quando l’ex Ceo di Enel venne nominato per la prima volta dal governo Renzi (idem nel 2017, premier Gentiloni, e nel 2020 con il Conte II). Nessuno che parlò di “processo opaco”, anzi “tossico”, nessuno che stigmatizzò una “completa mancata trasparenza” quanto ai criteri di nomina del nuovo board e sugli indirizzi strategici dell’azienda.

(A proposito: in aziende che operano sul mercato, tanto più se quotate, le strategie non vengono decise dal governo, ma dal consiglio d’amministrazione su proposta del management; ciò che per ovvi motivi non può che accadere dopo, non prima, che il nuovo board si sia insediato. E fermo restando che nessuna strategia aziendale è scritta sulla pietra, come è giusto che sia essendo il contesto di riferimento sempre mutevole).

Neanche ci fu chi chiese conto del perché l’allora Ceo di Enel, Fulvio Conti, venne mandato a casa, con tutto (sia detto en passant anche rispetto a certi commenti forse un pelo eccessivamente benedicenti al limite dell’agiografico sull’ultima gestione) che fu grazie a Conti se andò in porto e venne implementato, cosa niente affatto scontata, lo scorporo di Terna senza il quale oggi il mercato elettrico, semplicemente, non esisterebbe. Per non parlare dello sviluppo – favorito anche grazie a più che generosi sistemi di incentivazione – in primis proprio delle rinnovabili che tanto hanno fatto la fortuna di aziende e manager.

NELLE NOMINE DELLE AZIENDE PARTECIPATE, CURRICULUM E RISULTATI NON C’ENTRANO

Come d’altra parte, per venire a tempi più recenti, non si ha memoria di vesti stracciate né di commenti accigliati quando l’anno scorso (governo Draghi) vennero giubilati manager capaci e che avevano portato risultati. Eppure il film andato in onda nel 2014 come pure dopo aveva lo stesso copione di oggi. Copione che con buona pace delle magnifiche sorti e progressive delle best practises sulla governance, prevede che il governo in carica metta ai posti di comando di aziende pubbliche essendo l’azionista di maggioranza relativa lo stato, manager di sua fiducia. Poi, se Tizio o Caio hanno anche (dico anche) un buon curriculum e risultati importanti, ovviamente tanto di guadagnato.

Ma se non vogliamo prenderci in giro e dire le cose come stanno, né curriculum né risultati sono stati, sono e saranno i principali criteri guida delle nomine nelle partecipate. Almeno, ripeto, finché parliamo di aziende a controllo pubblico.

Lo sanno per primi i cacciatori di teste che puntualmente vengono chiamati per selezionare curricula che nessuno mai si filerà minimamente. Così come lo sanno gli stessi manager, soprattutto quelli pericolanti, che in prossimità della scadenza sono soliti sparare qualche botto di fine mandato con l’auspicio di ingraziarsi il Principe di turno.

È COSÌ CHE FUNZIONA IL GIOCATTOLO

Per carità, niente di nuovo sotto il sole. Ognuno recita la sua parte in questa particolare (tragi)commedia umana. Basta che sia chiaro che è così che funziona il giocattolo (e funziona così, aggiungo, qui come ovunque lo stato controlli aziende, giusto per non stare sempre a martellarci le gonadi). Poi è altrettanto vero che esistono modalità e stili diversi di gestire un dossier comunque lo si guardi complesso e delicato vista la posta in gioco. Ma restiamo sempre sul terreno delle variazioni su di uno stesso spartito.

La sostanza è che il governo di turno cambia o conferma i top manager come più e meglio gli aggrada. A meno che – è questo il punto? – se lo fa Renzi o Draghi va bene, mentre invece se lo fa Meloni va meno bene. Il resto sono chiacchiere e distintivo.

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