Altri due record, per gli Usa, nel 2018: mentre il disavanzo commerciale è arrivato al 3% del pil, peggiorando rispetto al 2,8% dell’anno precedente e mettendo così a segno il peggior risultato da dieci anni a questa parte, il tasso di crescita è stato comunque il più elevato fra tutti i Paesi del G7. Con un consistente +2,9%, ha oscurato nettamente il +1,9% della Germania. Quest’ultima, invece, ha accumulato ancora un enorme attivo della bilancia dei pagamenti, arrivato all’8,1% del Pil. La Cina, che invece è cresciuta del 6,6%, ha avuto un avanzo sull’estero pari appena allo 0,7%: è stato dunque il Paese con la crescita più equilibrata sull’estero: un paradosso, visto il modello di sviluppo che aveva adottato nel passato.
Nel 2018, il Pil statunitense è cresciuto dunque del 2,9%, rispetto al 2,2% del 2017: l’accelerazione è stata determinata, nell’ordine, dai maggiori investimenti fissi del comparto produttivo, dall’aumento delle scorte, dalla maggiore spesa federale, dall’incremento delle esportazioni, dalla spesa per i consumi personali, e dalle spese pubbliche statali e locali che sono in parte compensate dalla contrazione degli investimenti nel settore residenziale. Mentre il reddito reale disponibile delle famiglie americane è cresciuto anch’esso del 2,9%, rispetto al 2,6% del 2017, il livello generale dei prezzi è aumentato del 2,2%, rispetto all’1,9%, portando in arrotondamento la crescita del Pil nominale al 5,2%. I prezzi al consumo sono aumentati del 2%, rispetto all’1,9% del 2017. Sotto il profilo temporale, si assiste anche negli Usa ad una decelerazione della crescita: si è passati dal 4,1% annualizzato del secondo trimestre, al 3,4% del terzo, per finire l’anno con il 2,6%.
Nel 2018, il rapporto debito pubblico/Pil è passato dal 106,1% al 107,8% dell’anno prima. Il deficit di bilancio è stato di 966 miliardi di dollari, pari al 4,7% del Pil, in aumento rispetto al 3,8% del 2017. Inutile sottolineare che il saldo primario del bilancio americano è rimasto come sempre negativo, per un ammontare pari al 2,9% del Pil, mentre era stato del 2,2% nel 2017. Quest’ultimo saldo rappresenta l’impulso positivo netto che deriva all’economia reale dal deficit pubblico, visto che la restante parte serve per il pagamento degli interessi.
Trascurando ogni altro parametro, si potrebbe arguire che lo 0,7% di peggioramento del saldo primario del bilancio statunitense ha determinato una identica crescita del Pil reale ed un contestuale peggioramento dello 0,2% del deficit commerciale, arrivando a 621 miliardi di dollari. Il passivo delle merci è aumentato di 83,8 miliardi (+10,4%), arrivando a 891 miliardi, mentre il surplus nei servizi è migliorato di 15 miliardi (+ 5,9%) arrivando a 270 miliardi. La scelta di abbandonare la manifattura, specialmente nel settore dei computer e delle auto, si è dimostrata perdente, con un rapporto ormai di 1:2 tra export ed import: nel 2018, per i computer ci sono stati 60 miliardi di dollari di export a fronte di 140 miliardi di import; per le auto, rispettivamente 159 e 372 miliardi di dollari.
Anche nelle alte tecnologie, la bilancia commerciale americana ha un passivo che peggiora continuamente: dai -84 miliardi di dollari del 2016 è arrivata ai -129 miliardi del 2018. L’unico grande settore in attivo è rimasto quello aerospaziale, con 86 miliardi di dollari, mentre quello dell’ICT è stato passivo per 173 miliardi. Risultati negativi sono stati registrati anche nei comparti delle biotecnologie, delle scienze della vita e della optoelettronica, rispettivamente con -16, -19 e -16 miliardi di dollari.
Per quanto riguarda la aree geografiche, i limitatissimi surplus commerciali degli Usa, espressi in miliardi di dollari sono stati registrati verso i Paesi dell’America centrale e meridionale (+41,5), Hong Kong (31,1), Olanda (24,8), Australia (15,2), e Belgio (14,2). I deficit più consistenti sono stati nei confronti di Cina (419,2), Unione europea (169,3), Messico (81,5), Germania (68,3), Giappone (67,6), Irlanda (46,8), Italia (31,6), Sud Corea (17,9) e Francia (16,2).
Nei confronti della Cina, rispetto al 2017, il deficit commerciale americano è aumentato di 43,6 miliardi di dollari, arrivando a 419,2 miliardi. Mentre le esportazioni americane sono diminuite di 9,6 miliardi, le importazioni sono aumentate di 34 miliardi: se per un verso le barriere tariffarie decise dalla amministrazione Trump non sembrano aver avuto alcun effetto di contenimento, per l’altro l’export cinese ha beneficiato dello scivolamento dello yuan, il cui valore rispetto al dollaro è passato da 0,16 a 0,14.
Anche il deficit commerciale con l’Unione europea è aumentato, di 17 miliardi di dollari, arrivando a 169,3 miliardi: l’export statunitense è aumentato di 35,4 miliardi di dollari, mentre l’import è cresciuto di 53,3 miliardi.
Se Pil di tutto il mondo dipende dall’import degli Usa, anche il debito americano verso l’estero continua a crescere: alla fine del terzo trimestre 2018, la posizione finanziaria netta era risultata passiva per 9.627 miliardi di dollari, rispetto ai 7.625 di un anno prima ed ai 1.279 miliardi del 2007. Il 1989 è stato l’ultimo anno in cui le attività americane sull’estero hanno superato le passività. Con un decennio di ritardo, ha seguito la medesima parabola discendente percorsa dalla Gran Bretagna.
La Cina non reinveste più il suo surplus commerciale con gli Usa in titoli del tesoro statunitense: le detenzioni si sono anzi ridotte dai 1.185 miliardi di dollari del dicembre 2017 ai 1.123 del dicembre scorso. Anche il Giappone ha fatto lo stesso, scendendo da 1.062 a 1.042 miliardi. In un anno, le detenzioni estere sono cresciute di appena 54 miliardi, passando da 6.211 a 5.265 miliardi, pur a fronte di un deficit federale di 966 miliardi di dollari. Il debito pubblico americano sarà pure un safe asset a livello globale, ma per finanziarlo occorre tenere alti i tassi di interesse.
L’economia americana continua ad essere un gigantesco mantice: i suoi squilibri persistono, ma fanno comodo a tutti: basta chiudere gli occhi, e sperare che duri.
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