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Variante Virus

Ecco le riforme (poco liberiste) consigliate a sorpresa dal Financial Times

Che cosa consiglia il Financial Times in chiave anti Covid-19 nell'editorial board intitolato "Virus lays bare the frailty of the social contract"

“Nulla sarà più come prima” è tra le affermazioni più ricorrenti nei giorni del coronavirus. L’affermazione ha una potenza drammatizzante che scatena forti emozioni, fonte di sconcerto, perfino terrore per la stragrande maggioranza dei destinatari. Lo status quo è spesso associato a uno stato di insoddisfazione, ma, in cambio, esso è noto, perciò paradossalmente rassicurante.

Il cambiamento cui tutti aspiriamo per superare l’insoddisfazione è, per la maggioranza di noi, salvo gli ultimi che ritengono di non aver nulla da perdere, riferito al proprio stato soggettivo, purché in uno scenario oggettivo di continuità. Non è strano che sia così dal momento che l’aspettativa di cambiamento ha un mero scopo competitivo, sia essa dei singoli, delle organizzazioni o degli stati. Ognuno auspica di cambiare, ovvero migliorare la propria posizione relativa percepita esclusivamente nel confronto con l’altrui. Ciò che gratifica è guadagnare posizioni in classifica a scapito altrui.

La frase potente, in questi giorni abusata, genera nei più la paura e l’insicurezza poiché essa si riferisce al contesto oggettivo, una terra incognita che si apre davanti e nella quale si rischia soggettivamente di arretrare. Chi la pronuncia la veste per lo più di retorico ottimismo, di buoni sentimenti, di melensi auspici. Se in buona fede. Di intenti manipolativi se si ritiene attrezzato a prevalere sugli altri. L’aspettativa del singolo di cambiare, migliorare, la propria posizione relativa a scenario costante è ovviamente ingenua e impossibile. Se non altro perché il miglioramento di sé, in quanto parte del tutto, muta inevitabilmente lo scenario oggettivo. Ma il punto più importante è se la frase in questione corrisponda alla realtà delle cose o rifletta piuttosto la percezione distorta della vista umana e il bisogno di retorica dei cuori.

È vero che noi tutti desideriamo rintracciare in singoli atti, di particolare drammaticità, l’inizio delle cose. Cerchiamo costantemente il big bang per ogni grande e piccolo accadimento della vita di ciascun individuo, dei popoli, degli stati. La battaglia di Azio ha segnato la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero nella Roma antica; la pace di Westfalia ha segnato la fine della visione universalistica di Carlo Magno e l’inizio dell’affermazione degli Stati sovrani in Europa; l’attentato di Sarajevo ha segnato la fine dell’Europa delle dinastie reali e l’inizio dei nazionalismi dei popoli; la demolizione del muro di Berlino ha segnato la fine della guerra fredda, anzi addirittura della Storia per qualcuno e così via nella ricerca incessante di singoli momenti fondativi assai immaginifici. Ma gli storiografi sanno bene che la Storia non procede a salti, non c’è un prima e un dopo. Il successo di un modello sociale, politico, economico è l’incubatore del cambiamento di sé stesso. Il covid-19 può essere allora considerato la causa scatenante del futuro che ci aspetta? E questo futuro è una terra incognita densa di pericoli, per gli inclini alla paura, di opportunità per gli inclini all’entusiasmo? Per entrambi di cose nuove e sconosciute? Nessun dubbio che l’attesa del nuovo e dello sconosciuto desta i sensi, drammatizza, accresce l’attenzione, in altri termini incrementa l’audience.

Tra le tante aspettative sollecitate vi è quella relativa, ad esempio, alle nuove modalità con cui sarà svolto il lavoro umano. È un trionfo di peana allo smart working. Ma questa modalità nasce con il coronavirus o non è piuttosto ciò che il progresso tecnologico degli ultimi 40 anni ha reso possibile e già da un pezzo? E qual è il tratto comune di ogni progresso tecnologico in termini di impatto sul lavoro umano? Che sia la ruota, il telaio, il vapore, l’elettricità, internet, l’intelligenza artificiale, tutte queste innovazioni hanno generato due conseguenze principali: il miglioramento della qualità della vita per i lavoratori e l’incremento di produttività della loro attività. In termini biecamente economici, lavoratori più durevoli e redditizi. E il problema, fin dai tempi della ruota dei nostri antenati, è sempre lo stesso: chi si impossessa della maggior quota di ricchezza incrementale generata dall’innovazione tecnologica? Negli ultimi 40 anni gli incrementi di ricchezza hanno prodotto una tra le più ampie divaricazioni della forchetta distributiva dell’umanità annichilendo l’ascensore sociale grazie alla duplice leva dell’appiattimento dei salari e della precarizzazione stessa del lavoro. Se lo smart working prima del coronavirus, pur reso disponibile dalla tecnologia, non ha dispiegato in pienezza il suo potenziale, ciò è dovuto semplicemente all’arretratezza, quando non ottusità dei modelli di controllo della produttività adottati dalle aziende.

Il covid-19 ha semplicemente costretto le aziende a muovere un deciso passo in avanti. Il tema cruciale è la divisione della ricchezza incrementale generata da questo importante atout tecnologico. Gli editorialisti nostrani per la verità sospingono con gli occhi del retrocranio i decisori politici a muovere ancora una volta in direzione della deregolamentazione, ovvero di uno scenario che mantiene inalterato l’equilibrio distributivo. Che lo faccia Confindustria è legittimo e benvenuto in un mondo dialettico. Che lo faccia anche tutto il coro degli opinionisti italiani è un po’ scoraggiante.

Ma ci soccorre per questo il più istituzionale tra i quotidiani di sistema, il Financial Times britannico che perdonerà questa lunga citazione “Riforme radicali – che ribaltino la direzione politica prevalente delle ultime quattro decadi – devono essere messe in agenda. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia. Dovranno guardare ai pubblici servizi come investimenti piuttosto che debito, e ricercare – regole – che rendano il mercato del lavoro meno precario. La redistribuzione – della ricchezza – riguadagnerà il suo spazio in agenda; i privilegi dei più anziani e più ricchi dovranno essere riconsiderati. Le politiche fin qui considerate “eccentriche”, come il reddito di garanzia e la tassazione patrimoniale, dovranno rientrare nel mix – della politica economica”.

Che il più autorevole alfiere del thatcherismo indichi questo percorso fa ben sperare nella lucidità delle élites dirigenti senza la quale il futuro rischia di essere davvero una terra oscura piuttosto che incognita.

 

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