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Energia

Ecco le imposte che l’Ue piazzerà per rimborsare i titoli del Recovery Fund

Che cosa celano i meccanismi finanziari del Recovery Fund europeo. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

Non sappiamo quando arriveranno i soldi del Recovery Fund. Sappiamo con relativa certezza quando invece arriveranno le tasse che sono condizione essenziale per il ricevimento di quelle somme.

Lo scriviamo sin da maggio del 2020: la Commissione non dispone di risorse proprie per erogare i 312,5 miliardi di sussidi del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF) che la UE distribuirà ai 27 Stati membri (con Italia e Spagna in testa con circa 69 miliardi ciascuno). Anzi, i Trattati le vietano proprio di disporre spese non coperte preventivamente da entrate e, solo eccezionalmente, le sarà consentito di indebitarsi emettendo obbligazioni per erogare questi sussidi. Ma quel debito comune, che c’entra poco o nulla con i vagheggiati eurobond, deve essere ripagato e su questo non ci può essere incertezza, altrimenti la tripla A che i mercati riconoscono alla UE, potrebbe vacillare. Servono entrate certe e consistenti per fronteggiare quei rimborsi. Da qui un intenso lavoro propositivo della Commissione cominciato anni fa ma ormai giunto al punto delle decisioni definitive.

Come al solito, basiamo le nostre affermazioni sullo studio di documenti ufficiali, in particolare un rapporto pubblicato del servizio studi dell’Europarlamento nel febbraio scorso e le 14 pagine della Comunicazione inviate il 18 maggio dalla Commissione al Consiglio ed all’Europarlamento dal pomposo titolo “la tassazione d’impresa per il ventunesimo secolo”.

Per consentire alla Ue di derogare al divieto di contrarre debiti sono stati adottati due strumenti. Uno per consentire l’emissione dei titoli, l’altro per garantire i flussi finanziari per il rimborso. Il primo è l’impegno, valido fino al 2058, di tutti gli Stati membri di contribuire al bilancio comune per una quota aggiuntiva pari al 0,6% del Reddito Nazionale Lordo (RNL). Circa 95 miliardi l’anno a prezzi 2018 (12 per l’Italia) che gli Stati membri si impegnano a versare a prima richiesta. Il secondo serve a precostituire entrate certe per i 30 anni, a partire dal 2026, in cui la Commissione dovrà rimborsare ai mercati le obbligazioni emesse nel quinquennio precedente. Il regolamento prevede che queste somme non possano superare annualmente il 7,5% dei 390 miliardi di sussidi del Next Generation UE. Un tetto pari a circa 29 miliardi, di cui si è premunita la Commissione per non ritrovarsi in qualche anno a dover rimborsare somme troppo alte, il che la dice lunga sulla prudenza con cui è costretta a muoversi su questo terreno.

Ma reperire entrate aggiuntive per 29 miliardi (che sono sempre circa il 20% del bilancio ordinario annuale della UE) è comunque impegnativo, soprattutto alla luce della fatica che la Commissione sta facendo sin dal 2011 per riformare il quadro complessivo delle entrate unionali.

L’obiettivo è quello di ridurre al minimo, fino a farle diventare residuali, le entrate costituite dai contributi degli Stati versati in proporzione al RNL – che, insieme alle entrate basate sull’IVA, hanno costituito nel precedente bilancio settennale ben l’83% delle entrate complessive – ed introdurre entrate direttamente attribuibili dalla UE.

Si è perso il conto dei paper pubblicati dalla Commissione, così come si è perso il ricordo dei risultati di 3 anni di attività del gruppo di lavoro di alto livello presieduto dal senatore Mario Monti incaricato di riformare il sistema delle entrate della UE. Su un tema per il quale è necessaria l’unanimità, c’è sempre stato qualche Stato membro di traverso.

Ma quelli che fino a ieri era un generico impegno politico, da quest’anno non può più restare tale. L’Europarlamento è stato chiaro: capitale ed interessi del NGEU devono essere rimborsati con risorse proprie aggiuntive per le quali ha preteso ed ottenuto, nell’ambito di un decisivo accordo interistituzionale concluso in dicembre con Consiglio e Commissione, la definizione di una precisa tabella di marcia e relative tappe intermedie, in ciascuna delle quali vedrà la luce una nuova tassa europea.

Sono sei i pilastri su cui basano le nuove entrate: con efficacia retroattiva dal 1 gennaio 2021 (non appena sarà terminato il processo di ratifica della Decisione sulle Risorse Proprie) una tassa pari a €0,80/kg per la plastica non riciclata. A seguire, entro il prossimo luglio, la Commissione ha già annunciato la proposta della seguente tripletta: un meccanismo volto a penalizzare con una tassa l’import di prodotti con elevata “impronta” di carbonio, una tassa sul digitale ed un intervento sul sistema di scambio dei diritti di emissione di CO2. Il tutto da adottarsi da parte del Consiglio entro luglio 2022, per l’entrata in vigore il 1 gennaio 2023. Per completare l’opera, entro giugno 2024, la Commissione proporrà una imposta sulle operazioni finanziarie ed un’imposta calcolata su una base imponibile comune per le società. L’adozione da parte del Consiglio è prevista per giugno 2025 e l’entrata in vigore per il 1 gennaio 2026.

Così facendo, sottolinea proprio il rapporto dell’Europarlamento, sarebbe difficile per gli Stati membri continuare a fare il consueto calcolo del dare e dell’avere nei rapporti finanziari con la UE. Per intenderci quello che ci vede da tempo contribuenti netti.

La comunicazione della Commissione si sofferma proprio sulla tassazione societaria, l’ultimo tassello del cronoprogramma indicato. Il progetto mira ad identificare una base imponibile comune (oggi ce ne sono 27 diverse) per le società multinazionali da allocare tra i diversi Stati, secondo una formula che tenga conto di diversi parametri (consumatori, dipendenti, attività fisse), che applicheranno poi le rispettive aliquote nazionali. Il tutto per garantire una “crescita equa e sostenibile”.

Sì, purtroppo ci risiamo, dopo 10 anni dall’austerità “espansiva”, tornano a raccontarci che le tasse portano crescita. Non andrà meglio.

(Versione aggiornata e integrale di un articolo pubblicato sul quotidiano La Verità)

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