Nei giorni scorsi ho criticato l’invito del governo alle opposizioni per incontrarsi oggi pomeriggio per un esame congiunto delle rispettive posizioni sul salario minimo (smic). Mi sembrava non solo una riunione inutile per quanto riguarda il merito (a meno che il governo con un clamoroso voltafaccia si fosse convinto della bontà degli argomenti delle opposizioni (al netto di Iv che peraltro non parteciperà all’incontro), mentre al Pd e al M5S veniva regalato un motivo di polemica – fino a quel momento sopita e rinviata all’autunno – da spendere subito nei Festival dell’Unità durante una campagna estiva un po’ moscia, facendo un pacchetto unico del salario minimo e del reddito di cittadinanza.
Correva voce che Meloni fosse interessata alla disponibilità ribadita da Carlo Calenda e che cercasse di incunearsi nel ‘’campo largo ad hoc’’ che si era formato sulla proposta di legge unitaria. Ritenevo però che questo gioco non valesse la candela, perché se è vero che la presenza di Azione nel sodalizio pro salario minimo fornisce un modesto correttivo all’impennata di populismo insita nell’aver sollevato questo tema, da parte delle minoranze, al solo scopo di farselo bocciare (sarebbe bastato votare l’emendamento soppressivo), l’eventuale sfilarsi di Calenda non avrebbe disarmato l’offensiva di Conte e Schlein.
Nelle prime settimane del mese di luglio, Giorgia Meloni si era accorta che stava perdendo la battaglia mediatica. Tutti ‘’gli amici degli amici’’ – guidati da Rep – erano scesi in campo per mettere in difficoltà il governo, sposando strumentalmente la narrazione e le proposte delle opposizioni, senza tener minimamente conto delle critiche, non infondate, del governo, che, peraltro recuperavano gran parte dei dubbi da sempre espressi dai sindacati a proposito del possibile effetto sostitutivo dello smic rispetto alla contrattazione collettiva.
Era riuscita con la legge dei numeri a gettare la palla dello salario minimo in tribuna. Che senso aveva riaprire il confronto, adesso, quando anche la Cgil e la Uil hanno cambiato posizione perché non sono più in grado di fare il loro mestiere. È vero che in Italia la copertura dei contratti collettivi riguarda il 97% dei lavoratori, ma il 57% dei contratti dei settori privati è scaduto (si veda il 17° report del Cnel), con effetti per 7,7 milioni di lavoratori. Poi c’è la leggenda metropolitana dei ; è vero che sono tanti, ma secondo una stima credibile interessano 44mila lavoratori.
Tutto ciò premesso, a mente fredda, mi sono reso conto che Meloni ha qualche carte da giocare. E mi sono fatto anche un’idea specifica orecchiando qualche indiscrezione. Al posto della premier, mi presenterei tra poche ore all’incontro con le opposizioni illustrando una considerazione e avanzando una proposta.
La prima: la lotta al lavoro povero non la si vince soltanto col salario minimo, ma con misure che agiscano su di uno spettro più ampio, a partire dal lavoro sommerso, dall’abuso del part time e quant’altro.
La proposta: diamo l’incarico al Cnel – che ci rappresenta tutti e che raccoglie le parti sociali più rappresentative – di studiare la questione, sulla base della memoria presentata in audizione alla Camera; e di avanzare entro 60 giorni un pacchetto di proposte al governo e al Parlamento.
Al Cnel la Costituzione riconosce il diritto di iniziativa legislativa. Davanti ad una proposta siffatta non sarebbe facile per le opposizioni dire di NO. E comunque il governo avrebbe un argomento in più a suo favore.