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Ecco gli effetti della recessione economica sugli investimenti finanziari. Report centro studi Moneyfarm

Analisi a cura del Centro Studi Moneyfarm L’Italia, dopo il secondo trimestre senza crescita, è entrata in recessione. Il problema non è nuovo e ha radici e implicazioni profonde, che difficilmente emergono focalizzandosi sulle ragioni della dinamica di breve termine del prodotto interno lordo. L’andamento del Pil italiano si muove ormai da oltre vent’anni intorno…

L’Italia, dopo il secondo trimestre senza crescita, è entrata in recessione. Il problema non è nuovo e ha radici e implicazioni profonde, che difficilmente emergono focalizzandosi sulle ragioni della dinamica di breve termine del prodotto interno lordo. L’andamento del Pil italiano si muove ormai da oltre vent’anni intorno a tassi di crescita che non superano il 2% e può essere inserito nel contesto di un trend almeno trentennale che ha visto le capacità espansive dell’economia italiana ridursi in modo graduale e costante. In questo contesto, come si deve comportare l’investitore?

 

 

 

 

Dal punto di vista finanziario le domande sono due: esiste il rischio che una recessione decisa metta a rischio i conti pubblici? Come si deve comportare l’investitore?

Molto dipende dal rischio che una recessione decisa metta a rischio i conti pubblici. Certo è che i recenti movimenti dello spread hanno dimostrato che l’Italia è percepita dai mercati, a torto o a ragione, come l’osservata speciale e per molti una delle prime geografie dalla quale ritirarsi in caso di un aumento dell’avversione al rischio sul mercato. Questa percezione mostra la via stretta su cui si muovono i conti pubblici italiani in caso di recessione severa, che comunque per adesso non vediamo alle porte.

Il nostro suggerimento è quello di investire in modo diversificato, per proteggere il proprio capitale nel medio-lungo termine dai rischi specifici legati al sistema Italia. La dinamica economica tende a riflettersi sugli andamenti azionari. Come è possibile apprezzare dal grafico, il Ftse Mib (rappresentato dalla linea nera) ha sottoperformato a partire dal 2010 tutti i principali benchmark europei (azionari e obbligazionari).

Alla luce dell’andamento economico cha abbiamo visto negli ultimi anni, la dinamica non sorprende e ci ricorda ancora una volta le ragioni per cui è saggio, per la maggior parte degli investitori, affidarsi a un professionista che sappia costruire una strategia diversificata per limitare il rischio, sperando che l’Italia trovi le forze e le idee per invertire una tendenza che comunque non è irreversibile, come la storia economica di molti Paesi (anche vicini) dimostra.

RECESSIONE E PRODUTTIVITÀ

La lista dei problemi che affliggono l’economia italiana è piuttosto lunga, almeno quanto la lista dei suoi meriti, vista la resilienza che certi comparti industriali continuano a mostrare. Vale la pena soffermarsi sulla dinamica di crescita della produttività del lavoro a partire dal 1980 in una serie di paesi del G7.

 

 

 

 

 

Come si può notare, la crescita della produttività del lavoro è stata molto più lenta in Italia rispetto agli altri paesi del G7, addirittura stagnante a partire dal 2001. La produttività del lavoro misura la quantità di Pil generato per ogni ora lavorata in un determinato periodo di tempo. Ovviamente non è un giudizio sulla produttività di una popolazione. Si tratta di una misura di cui è molto complesso leggere il significato, per la quantità dei fattori che contribuiscono alla sua determinazione. In generale, possiamo dire che rappresenta il successo di un sistema economico-produttivo rapportato allo sforzo di tutte le persone che vi hanno contribuito.

La produttività determina la competitività di un’economia. Se un’economia è in grado raggiungere lo stesso risultato di produzione a parità di costo del lavoro e con meno ore lavorate, vuol dire che i suoi prodotti hanno costi di produzione più bassi. Oppure che esiste margine per alzare i salari, mantenendo i costi di produzione costanti.

Come si può rilanciare la produttività? Il discorso è molto complesso, perché stiamo parlando di un dato aggregato che tiene insieme una grande varietà di situazioni peculiari dei vari comparti. Con una prospettiva di lungo termine, gli investimenti sono uno dei mezzi principali per aumentare la produttività del lavoro. Gli investimenti contribuiscono a costruire quella dote di tecnologie che permette a un paese di restare vicino alla frontiera di produzione, primeggiando nei settori industriali ad alto valore aggiunto.

Un’altra determinante del tasso di produttività è la struttura politico-istituzionale. In molti notano come l’introduzione dell’Euro abbia coinciso con l’inizio della stagnazione della produttività in Italia e in altri Paesi dell’Europa mediterranea; ovviamente la spiegazione non è così semplice, ma certamente anche la flessibilità monetaria può avere una funzione di valvola di sfogo, soprattutto in un orizzonte temporale corto o medio. Altra valvola di sfogo è il mercato del lavoro: quando la produttività smette di crescere, gli effetti si riverberano sul mercato del lavoro anche in assenza di una dinamica recessiva dell’economia.

IL RUOLO DELLA POLITICA

Questa non è la sede per discutere dei problemi dell’economia italiana, argomento intorno al quale esiste un florido e interessante dibattito. Di certo non sembra cogliere il segno la politica, che sembra impegnarsi a individuare le colpe o i meriti di una dinamica di Pil di breve termine che sembra più determinata dal contesto generale – la realtà è che oggi, quando la Germania rallenta, l’Italia rischia la recessione e questo la dice lunga sulla solidità del sistema economico in generale.

Ciò che in questo dibattito sembra mancare (e il giudizio riguarda in egual modo l’intero arco parlamentare) è la cognizione che il Paese si trova affrontare delle dinamiche economiche di lungo periodo e che servono scelte lungimiranti per provare a invertire la rotta. In questo senso, ci sembra di poter dire che le scelte politiche degli ultimi quindici anni sono state più orientate alla mitigazione degli effetti avversi della transizione (ora con cambiamenti poco più che cosmetici sul mercato del lavoro, ora con l’intervento a sostegno di questa o quella categoria), piuttosto che a una progettualità di lungo termine (con le dovute eccezioni).

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