Che si sarebbe arrivati a questo punto era scontato. Quando ritieni di non essere più in grado di fare un passo in avanti sei destinato, prima o poi, a ripiegare.
Per mettere al centro del rilancio del Paese, impresa e lavoro, serviva una capacità di assemblare in un’unica piattaforma le strategie fondamentali di tutte le parti sociali che non c’è stata.
I reciproci sospetti sulla volontà di ciascuno di mettersi d’accordo con la controparte istituzionale e la mancanza di sponde politiche hanno convinto i rappresentanti dei lavoratori e delle imprese a muoversi in solitudine e spinto Mario Draghi e i suoi consiglieri ad ascoltare tutti salvo acconsentire in tutto o in parte a richieste compatibili fra di loro in un sostanziale equilibrio generale.
Il Premier, a mio parere, avrebbe preferito avere a disposizione una sponda vera con l’insieme delle parti sociali per arginare i populismi già presenti nel Governo ma ha dovuto ben presto prendere atto che il contagio populista, come nel covid-19, seppure in forma minoritaria non aveva risparmiato alcuna categoria e che avrebbe influenzato pesantemente le rispettive rappresentanze.
Le risorse messe a disposizione dal PNRR, la disponibilità all’aumento della spesa corrente e i segnali di una possibile ripresa dell’inflazione hanno spinto tutti a considerare legittime le proprie richieste non certo per realizzarle concretamente (nessuno è così politicamente stupido da pensarlo) ma semplicemente per segnare orgogliosamente il proprio perimetro e comunicarlo ai propri sostenitori.
Basta ascoltare un TG per comprendere lo scarto che c’è tra la comunicazione politica e la realtà. La prima consiste in una rivendicazione puntuale dei propri obiettivi salvo poi guardarsi bene dal tramutarli in un giudizio politico netto sull’operato del Governo e trarne le conseguenze sulla propria partecipazione e nel addossare agli altri compagni di viaggio la responsabilità del mancato accoglimento delle proprie rivendicazioni.
Draghi lo ha capito benissimo e tira dritto per la sua strada sapendo che è una discussione formale che non influisce minimamente sul rispetto dei capitoli di spesa già concordato con i decisori dei diversi partiti.
Con le parti sociali il problema si presentava comunque più complesso. Non essendo nella compagine governativa l’adesione o meno alla manovra non poteva avvenire seguendo lo stesso schema perché il punto di caduta trovato dalla politica e dai diversi partiti su un range ampio e complesso indeboliva sia la qualità che la quantità di ciò che sarebbe finito nelle tasche dei reciproci associati.
Confindustria, alla fine del percorso, ha giudicato insufficiente il risultato sull’impresa e sul lavoro addirittura preoccupata da un ulteriore peggioramento nel passaggio parlamentare. Si è però fermata qui.
Tra i sindacati, invece, è riaperta la faglia che li divide da sempre quando c’è da prendersi la responsabilità di chiudere o meno un’intesa su qualsiasi tavolo o argomento.
Landini e Bombardieri non si sono limitati a prendere atto che si sarebbe dovuto e potuto fare di più come era logico aspettarsi. Hanno voluto sancirlo con un atto che da un lato alimenta la confusione già a livello di guardia nel Paese e dall’altro evita un’assunzione di responsabilità.
Alla CISL non restava che scegliere. O scomparire nel riflusso populista scelto da Landini una volta compreso che Draghi non si sarebbe fatto trascinare in una riedizione aggiornata della concertazione o chiamarsi fuori tentando, in una condizione oggettivamente difficile, di far prevalere un barlume di strategia collaborativa che valorizzasse i risultati finora raggiunti.
Purtroppo ne escono male entrambi. I primi perché, a furia di provarci, riusciranno prima o poi ad innescare la miccia di un disagio sociale latente che, come nel resto del continente, cova sotto la cenere e che nessuna organizzazione tradizionale è però in grado di governare. Lo stesso rancore nei confronti della CGIL da parte dei COBAS e compagnia manifestato a Milano ne è un segno premonitore.
E i secondi perché la politica, a differenza del 1994, sembra non aver più bisogno di sponde nel campo sociale da cui si è disintermediata da tempo. Rientrare in gioco non sarà facile.
Quindi assisteremo ad una mobilitazione straordinaria di militanti fatti convergere sulla Capitale mentre il Paese assisterà incredulo a questa legittima quanto inutile prova di forza così come assiste incredulo alle dichiarazioni di questo o quel partito di maggioranza preso a ribadire specificità e differenze mentre il Paese prosegue verso ciò che lo attende.
Mario Draghi ha capito benissimo che la tradizionale rappresentanza politica e sociale di questo Paese funziona così. Strategie di lungo periodo e tattiche quotidiane non si incontrano quasi mai. Ma sa anche che siamo di fronte a proteste che non hanno una direzione di marcia univoca. Né la possibilità di trovare sintesi perché metodi e linguaggi sono un portato del passato e non convincono sia i nuovi disagi che le nuove generazioni.
Si sgonfieranno perché mobilitano “contro” limitandosi a spingere ciascuno nel cortile del proprio gruppo. L’errore più grande compiuto dall’insieme delle parti sociali è proprio quello di non aver compreso che Mario Draghi era l’ultima occasione per partecipare alla costruzione del futuro del Paese da protagonisti. Certo non pensando velleitariamente di dettarne l’agenda.
Questa dichiarazione di sciopero segna quindi una sconfitta. E non basterà il proprio pallottoliere per quantificare il consenso di piazza e spenderlo ad un prossimo tavolo. Milioni di lavoratori saranno al lavoro preoccupati del proprio futuro e di quello dei propri figli.
La maggioranza di loro pensa che Mario Draghi sia la soluzione. Non il problema. Si chiude così un’epoca. E non so se sia un bene per chi riconosce un ruolo positivo alla rappresentanza sociale.